Questo articolo fa parte dello speciale C'era una volta l'Urss
Nell’autunno del 1989 l’«impero esterno» sovietico si dissolve. La volontà di Gorbaciov di abbandonare la «dottrina Brežnev» imprime un’accelerazione poderosa al processo di emancipazione politica e di rinnovamento democratico dei Paesi dell’Europa centro-orientale. Sotto l’ombrello della nuova «dottrina Sinatra», mentre l’Unione Sovietica inizia il ritiro delle sue forze militari dai Paesi del Patto di Varsavia, l’«Europa rapita» volta pagina ed entra in una nuova fase storica. La riunificazione della Germania nell’ottobre del 1990, l’espansione della Nato a est nel 1999 e nel 2004 e l’allargamento dell’Europa nel 2004 e nel 2007 sono tra le conseguenze più rilevanti di questa svolta epocale.
All’interno dell’Urss, scossa dal travaglio riformatore della perestroika, nel 1988-1989 il fermento culturale innescato dalla glasnost’ e l’acuirsi delle difficoltà economiche nella vita quotidiana della popolazione si intrecciano con l’impatto delle riforme politiche e costituzionali e con la comparsa di spinte centrifughe nazionaliste, talvolta complicate dal riaffiorare di antichi conflitti interetnici. La concomitanza di tutti questi fattori mette a dura prova la stabilità complessiva del sistema. Nel marzo 1989, eletto in base a una nuova legge elettorale che apre al pluralismo politico e si traduce nella sconfitta di molti esponenti di spicco del Pcus, si riunisce il Congresso dei deputati del Popolo, definito da una riforma costituzionale come supremo organismo del potere sovietico. Esso è chiamato a eleggere i membri del nuovo Soviet Supremo dell’Urss, e nei mesi successivi un percorso analogo viene compiuto per rinnovare gli organismi dirigenti delle singole Repubbliche.
Mentre la democratizzazione procede, accompagnata dalla novità dirompente rappresentata dall’amplificazione mediatica del dibattito pubblico, le spinte indipendentiste cominciano a manifestarsi nelle Repubbliche dell’Unione la cui subordinazione al centro moscovita era stata storicamente più problematica. In Georgia si susseguono manifestazioni, solo inizialmente represse con la violenza dall’Armata rossa, sfociate in novembre nella dichiarazione di sovranità e nella denuncia dell’occupazione sovietica del 1921. Non sono da meno i Paesi baltici, incorporati solo alla fine della Seconda guerra mondiale, nei quali Fronti popolari nazionali erano venuti costituendosi sin dal 1988 (già in dicembre l’Estonia proclamava la propria sovranità). Nell’agosto 1989 i cittadini lituani, estoni e lettoni danno vita a un’immensa catena umana per il cinquantenario del patto Molotov-Ribbentrop, mentre un intenso dibattito pubblico si sviluppa intorno all’occupazione sovietica scaturita dai protocolli segreti.
Il conflitto tra armeni e azeri per il Nagorno–Karabakh era divampato durante il 1988, costringendo Mosca a intervenire con lo stato di emergenza, e si era ulteriormente aggravato in seguito alla fine del controllo diretto sovietico sulla regione contesa (incorporata nella Repubblica azerbaigiana ma abitata da armeni), e al devastante impatto del terremoto di Leninakan. La risposta azera alla dichiarazione unilaterale di annessione del Nagorno-Karabakh è il massacro della minoranza armena perpetrato a Baku nel gennaio 1990, conclusosi solo in conseguenza del deciso intervento delle truppe sovietiche. La riduzione del controllo diretto del centro moscovita e il rafforzarsi delle dinamiche centrifughe alimentano la conflittualità interetnica in tutta l’area transcaucasica. Le minoranze osseta e abchaza si mobilitano per prendere le distanze dalla Georgia e hanno poi dato vita, con la dissoluzione dell’Urss, a piccoli Stati filorussi non riconosciuti dalla comunità internazionale, in modo analogo alla Transnistria.
Nella primavera del 1990 la riforma costituzionale voluta da Gorbaciov giunge a compimento anche nelle singole Repubbliche dell’Unione. Si svolgono le elezioni dei rispettivi Congressi dei deputati del popolo, dai quali scaturiscono i nuovi Soviet Supremi, organismi rappresentativi ormai non più sottoposti al controllo centrale del partito, legittimati da competizioni elettorali nelle quali le rivendicazioni nazionali sono divenute prioritarie. Le dichiarazioni di sovranità si susseguono nei mesi successivi in tutte le Repubbliche. Anche la Russia (Rsfsr, Repubblica socialista federativa sovietica russa), nella quale Boris El’cin era stato appena eletto alla presidenza del Presidium del Soviet, proclama in giugno la propria sovranità e poi dichiara il primato delle leggi repubblicane rispetto alle leggi dell’Unione.
Nel frattempo, il tormentato processo di riforma del Pcus, avviato nel settembre 1988 con la riduzione dell’apparato centrale e la frantumazione della segreteria, sfocia nel marzo 1990 nell’abolizione del monopolio del partito riconosciuto dall’articolo 6 della Costituzione. Si tratta di una soluzione di compromesso voluta da Gorbaciov, che intende rinnovare il Partito comunista senza distruggerlo e che scontenta non solo i conservatori, ma anche i radicali a partire da El’cin, ormai orientati verso lo scioglimento di un partito considerato irriformabile. Un’altra importante modifica costituzionale istituisce la carica di presidente del Soviet Supremo dell’Unione, attribuita a Gorbaciov. Ciò avrebbe dovuto tradursi in una maggiore legittimazione politica e in un conseguente rafforzamento del segretario generale del Pcus. Invece il suo potere comincia a indebolirsi, minato alle fondamenta dal rafforzarsi dei vertici delle singole Repubbliche proprio mentre le riforme pongono fine al ruolo coesivo svolto dal Partito comunista. Modificare i Soviet repubblicani in organismi rappresentativi dotati di una nuova legittimazione politica e contemporaneamente smantellare la struttura centralizzata del Pcus significava trasformare l’assetto complessivo dello Stato sovietico accentuandone il carattere di federazione di Stati, senza che la costituzione vigente contemplasse contrappesi efficaci al prevalere delle spinte centrifughe.
Fattori di debolezza della leadership gorbaceviana sono il calo di popolarità, dovuto all’aggravarsi della crisi economica e alla penuria dei beni sugli scaffali dei negozi, e la crescente polarizzazione tra conservatori e radicali
Altri fattori di debolezza della leadership gorbaceviana sono il calo di popolarità, dovuto all’aggravarsi della crisi economica e alla penuria dei beni sugli scaffali dei negozi, e la crescente polarizzazione tra conservatori e radicali, che riduce i margini di manovra di un leader pur abilissimo nella mediazione politica. Già in occasione del XXVIII Congresso del Pcus (luglio 1990) aveva dovuto prendere atto del rafforzarsi dell’ala conservatrice all’interno del partito, e allearsi temporaneamente con El’cin e i radicali per ottenere la maggioranza. Aveva inoltre inizialmente appoggiato un programma di riforma economica radicale, il piano che prevedeva la transizione completa all’economia di mercato in 500 giorni. Ma negli ultimi mesi dell’anno, mentre i radicali abbandonano definitivamente il partito, Gorbaciov accantona quell’ipotesi, commissiona e vaglia piani di riforma economica più moderati, e finisce per non adottarne nessuno scegliendo di procedere di volta in volta per decreto.
Durante i primi mesi del 1991 i Paesi baltici, seguiti in aprile dalla Georgia, giungono a proclamare l’indipendenza. Nel mese di marzo si svolge un referendum sul futuro dell’Urss al quale rifiutano di partecipare Lettonia, Lituania, Estonia, Georgia, Armenia e Moldavia. Incassata la disponibilità di nove Repubbliche a fare parte di una nuova Unione Sovietica rinnovata in senso confederale, Gorbaciov avvia nella dacia di Novo-Ogarevo i negoziati sfociati nell’accordo «9+1», sottoscritto anche da El’cin, che in giugno viene eletto, dopo la riforma degli ordinamenti della Rsfsr, presidente della Russia.
La disperata reazione estiva dei conservatori è ben nota. Nelle due settimane di agosto che precedono la firma definitiva del Trattato, mentre Gorbaciov è in Crimea per trascorrere le vacanze con la famiglia, i vertici del Kgb, degli Interni e della Difesa, con l’accordo del Primo ministro, attuano un colpo di Stato, tentando inutilmente di coinvolgere lo stesso Gorbaciov, poi arrestato e accusato di tradimento. L’iniziativa fallisce grazie all’ampia mobilitazione spontanea della piazza moscovita, alla testa della quale si pone El’cin, e alla presa di distanze delle forze armate dall’iniziativa. Quando Gorbaciov ritorna a Mosca la situazione politica è ormai profondamente mutata. Il suo potere, e le istituzioni centrali dell’Unione, sono irrimediabilmente screditati, mentre El’cin, consacrato come il nuovo leader della Russia, procede senza indugi a sciogliere il Partito comunista e ad acquisire il controllo delle forze armate sovietiche sul territorio russo.El’cin, consacrato come il nuovo leader della Russia, procede senza indugi a sciogliere il Partito comunista e ad acquisire il controllo delle forze armate sovietiche sul territorio russo
Tra il 24 agosto e il 21 settembre Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Azerbajgian, Kirghisistan, Tagikistan e Armenia proclamano l’indipendenza. Gli ultimi tentativi di Gorbaciov di dare vita a una nuova Unione di Stati Sovrani sono vanificati dall’incontro svoltosi l’8 dicembre nella foresta di Belaveža tra El’cin, Kravčiuk (Ucraina) e Šuskevič (Bielorussia). I tre leader dichiarano sciolta l’Urss e danno vita alla Comunità degli Stati indipendenti (Csi), alla quale aderiscono altre otto Repubbliche. Gorbaciov è costretto a dimettersi e il 25 dicembre la bandiera dell’Unione Sovietica cessa di sventolare sul Cremlino, sostituita dal tricolore russo.
L’impatto della dissoluzione dell’Urss sul mondo contemporaneo è stato notevolissimo. Non sorprende dunque che intorno a questo evento si sia sviluppato un intenso dibattito scientifico e politico, che ha coinvolto storici e studiosi di geopolitica, esperti di relazioni internazionali e politologi, economisti e sociologi. Farne un bilancio critico ora, in occasione del trentennale, è davvero necessario e utile, tanto più alla luce della rinnovata attualità delle relazioni tra Russia ed Europa.
La crisi complessiva del sistema sovietico era stata diagnosticata per tempo dagli osservatori più attenti, ma gli studiosi di «sovietologia» sono stati comunque colti di sorpresa dalla dissoluzione dell’Urss. Lo storico di professione però, sempre acutamente consapevole del ruolo della contingenza storica, non deve stupirsi per questo. Il giudizio critico sull’operato di Gorbaciov ha messo in luce i numerosi errori compiuti lungo la difficile strada delle riforme: sottovalutazione della gravità dei problemi economici strutturali del Paese e ingenua fede nella possibilità di tenere insieme vecchio e nuovo, piano e mercato; comprensione inadeguata delle questioni nazionali nelle Repubbliche; eccessiva fiducia nella riformabilità del Partito comunista e nella propria capacità di portare a compimento l’opera attraverso la mediazione politica e il compromesso.
Una riflessione equilibrata non può d’altro canto ignorare le immense e inedite difficoltà che la sfida della perestrojka ha dovuto affrontare: l’ambizione di rinnovare simultaneamente società, economia, politica e cultura, che ha reso il fallimento dell’esperienza sovietica tanto distante dal «successo» del modello cinese, è riconducibile anche al carattere europeo della Russia/Urss e della formazione intellettuale del suo gruppo dirigente. La leadership di Gorbaciov, insignito nell’ottobre 1990 del premio Nobel della pace, ha contribuito inoltre in modo significativo alla modalità prevalentemente pacifica della dissoluzione, diversa da quanto accaduto su scala ridotta nella ex-Jugoslavia: una sorta di Armageddon averted (S. Kotkin), nonostante i circa 25 milioni di russi rimasti fuori dalla Federazione russa, l’accendersi di conflitti etnici locali e regionali, e il grande quantitativo di armi, convenzionali e nucleari, dislocate sul territorio. La lunga transizione innescata da quegli eventi non si è ancora conclusa, vecchi problemi rimangono irrisolti nello spazio ex sovietico e nuove nubi di volta in volta si addensano sul complesso scenario dei rapporti internazionali. Da europei non possiamo che auspicare il prevalere dell’attitudine al dialogo anche nelle circostanze più difficili.
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