Questo articolo fa parte dello speciale La pandemia degli altri
“Ho sentito che in Italia la situazione è drammatica. Secondo lei il virus è già anche qui, in Turchia?”. Sono alla stazione degli autobus di Edirne, città turca sul confine con la Grecia dove nelle scorse settimane migliaia di migranti si sono ammassati tentando, vanamente, di entrare in Europa. È un ragazzo turco a parlarmi. Si trova qui perché ha voluto portare cibo ai profughi che aspettano alla stazione e mi chiede informazioni sulla situazione del Coronavirus in Italia, ma soprattutto cerca di capire se l’emergenza sanitaria rappresenterà a breve anche qui un problema. Sono i primi giorni di marzo e, mentre l’Italia sta sprofondando nella crisi sanitaria, in Turchia ancora non sono stati annunciati casi di Coronavirus. Il ministro della Sanità addirittura critica l’Europa accusandola di avere “reagito in maniera molto lenta”. Il dramma italiano però comincia a essere tra le notizie principali nei media turchi, e coglie l’attenzione anche di questo ragazzo alla stazione di Edirne. È solo dopo aver parlato con lui che inizio per la prima volta a rendermi conto davvero della dimensione di questo dolore, che non si allevierà tanto in fretta.
Tornato a Istanbul vengo contattato da amici e parenti. Sguardi inquieti e apprensione nelle loro parole; quotidianamente mi informano di un dramma che si aggrava giorno per giorno, non sembra dare tregua. Abitano nell’Italia settentrionale, dove il virus comincia a mietere vittime e a spaventare sempre di più. A Istanbul la vita pulsa nelle strade e scorre frenetica come sempre, i pescatori affollano i ponti sul Corno d’Oro, i banchi dei mercati di strada si snodano per le vie della città, i cortili delle moschee sono affollatissimi durante la preghiera del venerdì e la vita notturna esplode dentro i club, aperti anche dopo le prime luci dell’alba. C’è una mostra di Marina Abramović in una delle gallerie più prestigiose della città. Decido di non andarci, forse inconsciamente dando ascolto alle notizie che provengono dall’Italia o ai commenti sui social media di tanti turchi che si chiedono increduli perché il virus non si sia ancora diffuso in Turchia. Ho l’impressione siano moderne Cassandre.
Questa discrepanza tra due Paesi geograficamente, e forse anche culturalmente, non così lontani mi getta in un’inquietudine che mi paralizza per qualche giorno. Quando la tensione mentale si scioglie continuo a scrivere i miei reportage sui migranti che ho incontrato una settimana prima al confine tra Grecia e Turchia. Il pensiero corre però sempre alle notizie cupe che arrivano dall’Italia. Tutti i Paesi che confinano con la Turchia, ad eccezione della Siria in guerra, hanno già registrato casi di Coronavirus e decessi: tra questi c’è l’Iran, dove il virus sembra aver dato il colpo di grazia a un Paese già piegato da mille problemi. In Turchia le scuole sono aperte, i ristoranti di Istanbul pieni come sempre, ma sui mezzi pubblici noto che alcune persone cominciano coprirsi la bocca con mascherine chirurgiche.
È l’11 marzo quando il ministro della Sanità annuncia il primo paziente positivo in Turchia. Il governo non approva subito misure particolari, sembra che non ci sia alcuna epidemia da combattere. Alcuni negozi decidono comunque di chiudere, anticipando i provvedimenti che le autorità avrebbero preso qualche giorno più tardi. Mentre i casi iniziano ad aumentare, arriva anche le prima vittima. Viene annunciata la chiusura di scuole e università. Dall’Italia arrivano notizie sempre più drammatiche, sono puntualmente riportate su tutti i media turchi. Mentre mi reco a fare compere dal salumiere di fiducia, nel mio quartiere, resto spiacevolmente colpito dalle battute di alcuni clienti che sottolineano la mia origine: “Ha scelto di restare a vivere qui perché in Italia c’è la malattia”; il padrone del negozio non vuole perdermi come cliente e, imbarazzato, cerca di difendermi.
Mentre le cifre dei contagi restano sotto il centinaio, il presidente turco Erdoĝan appare raramente sui media. Una mancanza che colpisce, considerato che è abituato a parlare, spesso a reti unificate, quasi quotidianamente, e talvolta anche più volte al giorno. Una foto sui giornali lo ritrae di spalle mentre cammina circondato da guardie del corpo con telecamere per il rilevamento termico delle persone che incontra. Saranno principalmente due i discorsi alla nazione di Erdoĝan riguardo al Coronavirus. Nel primo, a poco più di una settimana dall’annuncio dell’inizio del contagio, quando ci sono 191 pazienti e due decessi, il presidente turco appare determinato e forte. Esordisce affermando che “da ora in poi, nulla sarà più come prima” e accusa i Paesi occidentali di avere “svenduto il proprio sistema sanitario pubblico al settore privato”, motivo per cui si trovano in grave difficoltà. Sostiene poi che la Turchia è preparata per affrontare questa crisi e ne uscirà addirittura rafforzata. Invita la popolazione a uscire di casa solo quando è necessario e annuncia un pacchetto da 100 miliardi di lire turche – poco più di 14 miliardi di euro – per fronteggiare l’emergenza. Rivolgendosi al pubblico di ministri, come a quello televisivo, chiede retoricamente: “Siete contenti?”.
Quando Erdoĝan parla per la seconda volta sono da poco passate le 10 di sera di venerdì 27 marzo. In Turchia nel frattempo sono stati chiusi bar, ristoranti, cinema, centri commerciali e negozi di ogni tipo tranne gli alimentari. Molte persone lavorano da casa. L’utenza dei mezzi pubblici è diminuita dell’85%. La preghiera nelle moschee è permessa solo in forma individuale e sono vietati gli assembramenti. Sono morte 92 persone e i casi di Coronavirus sono quasi 6.000. Il presidente turco non appare tonico come dieci giorni prima. Scuro in volto, chiede alla nazione “grandi sacrifici” e annuncia il divieto di spostamenti tra città e città in quasi tutto il Paese, la chiusura dei parchi durante i fine settimana e che non ci saranno più voli internazionali, mentre i confini terrestri sono già chiusi. Erdoĝan non dice fino a quando le misure saranno in vigore e chiude assicurando che “con l’aiuto di Allah ce la faremo”. Con l’aggravarsi della situazione le misure restrittive aumentano, ma in Turchia non è stato dichiarato alcun “lockdown”, alcuni commentatori di opposizione sostengono che in quel caso l’economia collasserebbe e con essa anche l’attuale classe politica.
Sebbene il Coronavirus non abbia completamente fermato la Turchia, si teme che il percorso possa essere simile a quello dell’Italia. I numeri per ora sono ancora “bassi”: vengono forniti ogni giorno dal ministro della Sanità che nel darli, per settimane, non ha indicato la posizione geografica di contagi e decessi. La decisione ha attirato qualche critica e recentemente è stato rivelato che il 60% dei casi si trova a Istanbul mentre contagi e decessi sono sparsi in tutto il Paese. Grazie al racconto dei media italiani o di amici e parenti ho la triste impressione di sapere in anticipo quello che potrebbe succedere qui. Il primo caso è stato annunciato quasi tre settimane dopo rispetto all’Italia e mi auguro che gli eventi non si ripeteranno qui in maniera simile, o addirittura più grave. La speranza è fondata, dal momento che, tenendo conto di queste tre settimane di scarto, la Turchia pare aver reagito in maniera determinata e con anticipo rispetto all’Italia.
Il centro di Istanbul è oggi deserto, non l’ho mai visto così vuoto nemmeno tra il 2015 e il 2016, quando la città fu colpita da una drammatica stagione di terrorismo e da un tentato golpe. Tutti i negozi chiusi, nessuno per le strade. Lo splendore degli edifici disegnati da architetti francesi e italiani durante l’Impero ottomano non basta a rendere la principale via pedonale di Istanbul, Istiklal caddesi, il luogo affascinante che ho sempre conosciuto. È un posto svuotato delle sua anima: la vita che scorre e pulsa a tutte le ore del giorno nella vecchia Costantinopoli è ora un fantasma. È chiuso anche il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, la più prestigiosa istituzione religiosa del mondo cristiano ortodosso; incontro sulla porta un sacerdote ortodosso e mi dice che se anche il luogo è interdetto al pubblico la liturgia viene portata avanti lo stesso: “Ormai siamo diventati un monastero”, afferma con un triste sorriso. In questa enorme città vuota ogni sera alle nove molte persone si affacciano alla finestra e dedicano un lungo applauso ai medici impegnati nella lotta al Coronavirus, e talvolta il suono delle tanti mani che applaudono si mischia al canto dei muezzin che annunciano la penultima chiamata alla preghiera della giornata, anche se ai fedeli non è permesso recarsi in moschea in gruppo per pregare.
:: La pandemia degli altri :: Parigi [Francesca Barca] / Barcellona [Steven Forti] / Bruxelles [Eleonora Medda] / Philadelphia [Massimo Faggioli] / Berlino [Fernando D’Aniello] / Tirana [Stefano Romano] / Amsterdam [Maria Panattoni] / Nur-Sultan [Stefano Raimondi] / Essen [Pasquale Guadagni] / Istanbul [Filippo Cicciù] / Umeå [Simone Scarpa] / Mosca [Loris Marcucci] / Bristol [Iacopo Di Girolamo] / Lugano [Eleonora Failla] / Zagabria [Giovanni Vale] / Lisbona [Simone Tulumello] / Toronto [Nicola Melloni] / Washington DC [Lorenza Pieri] / Leiden [Adriano Martufi] / Melbourne [Chiara De Lazzari] / Buenos Aires [Gioia Greco] / Okinawa [Eugenio Goi] / Maputo [Andreea R. Torre, Alessio Cangiano] / Chapel Hill [Serenella Iovino] / Londra [Elena Besussi] / Oslo [Roberta Cucca] / Rio de Janeiro [Gustavo Siqueira]
Riproduzione riservata