Questo articolo fa parte dello speciale La pandemia degli altri
In bilico è iniziata la nostra quarantena. Da un lato dell’equatore, avevamo felicemente portato la nostra piccola arrivata a conoscere la famiglia italiana prima che passassero inesorabili troppi mesi. Da metà febbraio abbiamo vissuto l’incredulità della situazione da Bologna. Prima tanti i bimbi liberi nei giochi in piazza, poi, l’ultima settimana, chiusi in casa in attesa del volo. Siamo ripartiti il 7 marzo da una Malpensa attonita, con oltre 24 h di volo perché il Brasile, oggi gran negazionista della regione, già rifiutava arrivi diretti dall’Italia. Tant’è che abbiamo portato a spasso l’ipotetico virus prima a Madrid, poi a San Paolo e finalmente siamo arrivati a casa, a Buenos Aires.
Prima ancora di atterrare, riceviamo diverse email da parte della scuola di nostro figlio: con tono sempre più secco, siamo invitati a NON tornare a scuola al nostro rientro. Come dei nostri amici cinesi arrivati da Beijing a febbraio, in piena epidemia, decidiamo di metterci in auto-quarantena per proteggere la famiglia e tranquillizzare vicini e amici di scuola, che, passando vicino casa nostra, attraversavano addirittura la strada per non avvicinarsi alle finestre. Senza colpe, abbiamo la sensazione di essere visti come appestati o, peggio, untori; scellerati, se mai sapessero che il mio piccolo supereroe di 4 anni è uscito di notte a correre 50 mt sul marciapiede davanti casa e aveva il fiatone. Capeggiata dalla nonna, la splendida famiglia italiana, abituata alla distanza, ci racconta storie e gioca con noi da sempre telematicamente. Conoscenti locali chiamano per chiedere se abbiamo visto qualcuno (leggi: contagiato) o se siamo usciti: NO, non siamo usciti, perché tutto si compra online e perché dispensa e congelatore di noi italiani sono sempre pieni anche quando sono vuoti.
La quarantena, quella ufficiale, inizia il 20 marzo, un giorno prima che finisca la nostra. Non facciamo in tempo a uscire di casa; ad oggi siamo ancora rinchiusi, con l’ultima, ennesima, proroga sino al 27 aprile. Proroghe comunicate con il contagocce, per non spaventare una popolazione con troppa disuguaglianza sociale. Dove in città si è coscienti dell’onda venuta dall’Est che ha travolto il mondo, e dove nei suburbi la popolazione precaria si inventa come mangiare e sopravvivere. Si bloccano gli accessi dalla circonvallazione della metropoli, lasciando fuori oltre 10 milioni di abitanti che vivono in fila, promiscui, aggruppati come se nulla fosse nei video che indignano i cittadini.
Il neoeletto presidente Fernández fà la cosa giusta e prende la decisione del lockdown quando i casi sono solo 128; accantona l’enorme debito da pagare, “perché bisogna salvare vite”, e cerca di far fronte a una crisi economica immediatamente dura. Blocca i licenziamenti per due mesi. Obbliga le imprese a pagare gli stipendi e i benestanti a continuare a pagare gli aiuti domestici e le rette delle scuole private. La curva non spicca il volo. I malati sono pochi e, a quanto mi racconta confidenzialmente un amico medico dell’hospital italiano, ogni 2 casi di Covid-19 ce ne sono 8 di dengue, la vera piaga nascosta di cui non si parla e di cui non si muore ostentatamente.
In città gli ospedali e le cliniche delle assicurazioni private si organizzano, comprano, prevedono. La provincia di Buenos Aires in bancarotta fa quel che può: compra, paga male ed è lí pronta a fronteggiare l'impennata che si attende quando il virus si diffonderà nelle villas miserias (ossia le baraccopoli). O forse no, il dubbio è che i tamponi si riservino ai contribuenti e agli assicurati privati. E allora la curva non salirà e verranno le statistiche sull’immunità di gregge, volontari volenti o nolenti.
Si sentono gli uccellini e le ultime cicale dell’estate dalle finestre in questa grande città. I cani, mai cosí accuditi, sono portati a spasso indolenti; i bimbi rinchiusi hanno eccessi di rabbia o accidia. Le scuole private sono travolte a ogni proroga dall’incapacità di generare contenuti per quattrenni e poter giustificare le loro quote, quando informalmente si bisbiglia la riapertura ad agosto o settembre, forse. Gli inquilini iniziano a non pagare gli affitti. Le banche sono obbligate dal governo a postporre le scadenze delle carte di credito. I commerci si devono reinventare da asporto. Ronzano le biciclette dei delivery precari che rendono possibile questa quarantena per chi compra e per chi vende. Alle 21 ogni sera ci si trova un po’ più affranti uniti alle finestre applaudendo; alle 21.30 ancora per chiedere con astio ai politici un’autoriduzione dello stipendio.
Nulla è prevedibile di quello che accadrà o di quello che succederà senza essere fatto circolare. Non ci sono date. Non ci sono i mate condivisi, gli asado dei fine settimana, gli ultimi pomeriggi in piazza prima dell’inverno. Ritorneranno mai? Ci sarà un prima e un dopo da raccontare ai bimbi cresciuti, sperando solo che siano ricordi piacevolmente strani o che NON ricordino nulla perché già tutto sarà tornato come prima?
Le grandi sfide latinoamericane da vincere da qui alla salvezza del vaccino saranno come garantire cibo ai milioni di inurbati indigenti, come recuperare le imprese che operano grazie ai milioni di lavoratori senza possibilità di lavoro telematico, come evitare la diffusione del virus con un sistema di trasporto pubblico che pre-pandemia spostava ogni giorno 11 milioni di passeggeri in un’area grande quanto mezzo Molise.
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