L’ultima settimana di febbraio in Belgio era la settimana delle vacanze di carnevale, le scuole erano chiuse, mi trovavo in Toscana con la famiglia per qualche giorno di vacanza. Abbiamo così seguito da vicino l’attualità in Italia: in quella settimana l’attenzione montava giorno dopo giorno, ma ancora si minimizzava parlando di un’«influenza più pesante del solito».

Rientrati a Bruxelles e continuando a seguire le notizie italiane attraverso i giornali e i telegiornali online è divenuto ben presto chiaro che non si trattasse di una semplice influenza. Mentre la consapevolezza nella comunità italiana in Belgio aumentava grazie ai media italiani, in Belgio si minimizzava: lo stesso atteggiamento che prima avevano avuto gli italiani verso ciò che succedeva in Cina, in Belgio si aveva verso ciò che stava succedendo in quei giorni in Italia.

Nella prima settimana di marzo in Belgio tutto è continuato come prima: metropolitane piene, eventi nei teatri, serate nei bar e ristoranti, corsi collettivi nelle palestre. Spuntavano i primi casi di contagiati: nessun problema, ci raccontavano, erano tutti – e soltanto – belgi rientrati dalle vacanze sciistiche nel nord Italia. Abbiamo passato giorni in cui se le persone ti sentivano parlare italiano si allontanavano come se fossimo tutti appestati. Mi è capitato di salire in ascensore parlando in italiano con una collega e il signore che si è trovato con noi ha visibilmente trattenuto il respiro per sei piani. Lì per lì mi ha fatto tanto sorridere.

Man mano che la situazione in Italia peggiorava, era chiaro che ciò che avevamo vissuto attraverso i media italiani si stava riproducendo in ugual modo in Belgio con un ritardo di 10-12 giorni, come un film già visto: stesse identiche comunicazioni, i toni che aumentano di giorno in giorno, le notizie che si susseguono fino a riempire lo spazio dell’intero telegiornale e delle edizioni straordinarie. Tutta l’Italia diventa zona rossa e noi siamo ancora accalcati nelle metropolitane. Mi compro in fretta e furia una bicicletta.

Difficile trovare un termine per il nostro stato d’animo: preoccupazione, paura, angoscia, incertezza, insicurezza. Consci di ciò che stava succedendo fuori ci apparve ridicola la prima misura presa in Belgio di abolire gli eventi con più di mille persone: il tutto in un momento in cui sono in corso negoziati per la formazione di un governo federale da dieci mesi. Ormai il Belgio, senza governo da quasi un anno, non fa più notizia nell’attualità politica interna e internazionale.  

L’angoscia per le misure irrisorie si mescola a un teatrino della politica che non esprime proprio il meglio di sé: il governo in carica (da dieci mesi) per gli affari correnti non sembra avere la forza sufficiente per mettere tutti d’accordo su misure condivise in un Paese dove ci sono nove diversi ministri della Salute. C’è chi propone di accelerare le trattative per un nuovo governo fra forze politiche totalmente contrapposte (i socialisti francofoni del Ps con i nazionalisti fiamminghi della Nva), chi dalle regioni preme per avere misure condivise, ma alla fine ce la facciamo: il governo per gli affari correnti riceve l’incarico di guidare l’emergenza sanitaria. Un respiro di sollievo e le prime misure vengono prese: nella serata di giovedì 5 marzo viene deciso che il giorno successivo sarebbe stato l’ultimo giorno di scuola e che i negozi sarebbero rimasti tutti aperti con l’obbligo di chiusura nel fine settimana. Viene decretata la chiusura dei bar e dei ristoranti. La polizia deve intervenire nella notte di venerdì per interrompere «feste di lockdown» che alcuni bar hanno organizzato per il «fuori tutto». È chiaro che non si è ancora compresa la gravità dell’emergenza.

Le notizie si rincorrono veloci anche dai Paesi vicini: Francia, Spagna, Svizzera, Germania intervengono con misure restrittive. All’opinione pubblica la situazione appare non più sufficiente, bisogna fare di più: molti datori di lavoro anticipano le eventuali misure e decidono di utilizzare il telelavoro o di chiudere direttamente le attività. Il principale operatore telefonico chiude tutti i suoi punti vendita, gli uffici federali (l’ufficio delle tasse o l’ufficio nazionale dell’impiego per esempio) non ricevono più il pubblico, chiudono tutte le grandi catene e le istituzioni europee obbligano tutti i funzionari al telelavoro.

Arrivano finalmente nuove misure: da mercoledì 18 marzo alle ore 12 del mattino potranno rimanere aperti solo i negozi di alimentari, le farmacie e il telelavoro è obbligatorio, a meno che – data l’attività – sia impossibile organizzarlo (in tal caso sarà necessario rispettare le norme igieniche e di sicurezza del social distancing, altrimenti la ditta dovrà chiudere). Le strade di Bruxelles, come quelle di tutto il Paese, si svuotano, la polizia effettua posti di blocco sulle strade e mette in atto controlli severi sugli spostamenti non necessari.

Alla spicciolata – in seguito alla contrattazione con le forze sindacali, sociali e patronali – escono provvedimenti, in continua evoluzione, con misure economiche a sostegno delle aziende e dei lavoratori, dipendenti e autonomi. Le misure approvate dal governo federale sono ingenti e vedranno uno sforzo economico totale stimato fra gli 8 e i 10 miliardi di euro per il 2020 (di cui si stima di recuperare una parte – 4,5 miliardi – di imposte che saranno posticipate per imprese e lavoratori autonomi). Le misure a sostegno della disoccupazione temporanea peseranno da 1 a 1,5 miliardi, come le misure economiche a sostegno degli indipendenti.

Il governo ha infatti deciso di estendere una misura che esisteva già per situazioni particolari – la «disoccupazione temporanea per forza maggiore» – a tutti i lavoratori che saranno costretti a interrompere la propria attività lavorativa e per i quali non è possibile il telelavoro. In totale il sussidio di disoccupazione con «procedura corona» riguarderà fra gli 800.000 e 1 milione di lavoratori (il Belgio ha una popolazione totale di 11,4 milioni di persone con una popolazione attiva occupata di circa 5 milioni di persone). Questo implica che il sussidio verrà riconosciuto a tutti coloro per i quali i datori di lavoro attiveranno la procedura e si avrà diritto a un’allocazione calcolata sul 70% dello stipendio lordo (con un tetto massimo di calcolo di 2.754,76 euro) a cui verrà aggiunto un supplemento di circa 150 euro mensili. Stiamo parlando di un sussidio massimo netto, comprensivo di complemento, di circa 1.500 euro mensili.

La forte preoccupazione è per le fasce di popolazione più deboli e fragili, che vivono di stipendi limitati e di lavori precari. Anche se le misure prese dal governo per la protezione del reddito e del potere di acquisto sono ingenti, il timore è per tutta quella grande e numerosa parte di «nuova emigrazione» italiana che è impiegata spesso nei settori legati alla ristorazione, all’edilizia o alle pulizie – settori a basso reddito – e che vive di lavoro sottopagato o in situazioni di «impiego grigio».

Sappiamo infatti che la nuova emigrazione italiana, dipinta come la «fuga dei cervelli», è un mito da sfatare: coloro che emigrano sono costituiti solo per 1/3 da laureati, mentre 1/3 sono diplomati e un 1/3 in possesso della licenza media (dati Istat). La realtà all’estero è ben diversa dal racconto che ne viene fatto in Italia: nelle nuove comunità di emigrati italiani ci sono sicuramente molte persone qualificate, che hanno trovato all’estero soddisfazioni e crescita professionale che non avrebbero avuto in Italia, ma ci sono anche tantissime persone che si trovano in situazioni di estrema difficoltà, perennemente sulla soglia della povertà.

Oltre alla tragedia sanitaria, tutti i nodi di queste molteplici fragilità verranno al pettine ed emergeranno tantissime situazioni di difficoltà economica estrema a cui le istituzioni, estere e del nostro Paese, difficilmente riusciranno a far fronte. Passata la tempesta iniziale, importanti riflessioni si imporranno sul ruolo di settori pubblici cruciali quali la sanità, l’istruzione e i sistemi di protezione sociale che in questi ultimi decenni hanno subito dappertutto tagli importanti. Purtroppo, in quest’emergenza pagheremo le conseguenze di molte scelte politiche degli ultimi decenni.

 

 

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