Questo articolo fa parte dello speciale Viaggio nell'Italia dell'emergenza
In Italia, alla dichiarazione dello stato di emergenza sul territorio nazionale relativo al rischio sanitario connesso al Covid19 (alla fine di gennaio 2020), ha fatto seguito l’emanazione di una serie di decreti che hanno progressivamente stabilito l’irrigidimento e l’estensione (Dpcm 64 dell’11/03/2020) di misure finalizzate al contenimento del contagio. Si tratta di misure igienico-sanitarie, di distanziamento sociale, di divieto allo spostamento delle persone fisiche che limitano profondamente le libertà individuali, e che hanno anche prodotto conseguenze importanti sulla struttura economico-produttiva e sociale del Paese, in virtù del blocco di molte attività ritenute non essenziali o funzionali a fronteggiare l’emergenza. L’impatto di questi provvedimenti diversamente si misura su segmenti della popolazione specifici e sui territori, anche in relazione agli effetti delle politiche migratorie, nonché alla configurazione dei rapporti sociali e produttivi che vi è connessa, rendendo ancora più palesi diritti negati e nuovi rischi sociali.
Il caso della Piana calabrese di Gioia Tauro è emblematico per la criticità delle condizioni in cui versano molti migranti impiegati come braccianti agricoli. Si tratta di persone prevalentemente dell’Africa subsahariana, fuoriuscite dai programmi di accoglienza, in possesso di permessi di soggiorno temporanei o, in alcuni casi, in situazione di irregolarità amministrativa, che per lo più lavorano senza un regolare contratto, con paghe di circa 25 euro al giorno. Già nel 2010, la rivolta a cui diedero vita i braccianti agricoli migranti per le strade di Rosarno, servì a denunciare all’opinione pubblica nazionale e internazionale le dinamiche di sfruttamento, le condizioni di indigenza e le continue violenze perpetrate nei loro confronti. Quell’evento, seguito a una prima significativa manifestazione di piazza già nel 2008, buttò una luce tutta nuova sulla capacità di reazione dei migranti in un contesto fortemente oppresso dalla ‘ndrangheta, portando tanti a pensare che «gli africani salveranno Rosarno, e probabilmente anche l’Italia».
Tuttavia, i diversi interventi politico-istituzionali che sono seguiti negli anni hanno avuto risultati scarsi o nulli, se non controproducenti. All’insegna dell’emergenza furono installati nel 2011 un campo container a Rosarno e nel 2013 una tendopoli, nella zona industriale del paese confinante, San Ferdinando, abbandonata poi dalle autorità e progressivamente estesasi e trasformatasi in una baraccopoli che ha visto la presenza di oltre 2.000 persone durante la stagione invernale di raccolta degli agrumi; sempre a San Ferdinando, nel 2016, venne poi stato allestito un nuovo campo container e nel 2017, in seguito a un incendio, viene costruita una seconda tendopoli per accogliere coloro rimasti privi di un tetto. Questa ultima resta l’unica struttura di accoglienza, in seguito allo sgombero “spettacolare” effettuato nel marzo 2019 dall’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, con il dispiego di novecento tra agenti delle forze dell’ordine, vigili del fuoco e militari. Il campo ampliato consta di 75 tende, per una capienza totale di 750 posti, e di soli 7 bagni. Ostentando controllo e sicurezza, l’ingresso è presidiato dalle forze dell’ordine. Le spese del suo mantenimento ammontano a un costo di circa 14.000 euro al mese. La responsabilità ricade sul Comune di San Ferdinando, che ogni tre mesi ne affida la gestione a rotazione a organizzazioni non governative o di volontariato, che si occupano del servizio di guardiania e delle operazioni di manutenzione. Attualmente vi sono presenti circa 600 persone, 8 in ogni tenda, per molte delle quali questa ormai rappresenta una soluzione alloggiativa permanente durante tutto l’anno. Ci sono, poi, centinaia di lavoratori che vivono in altri insediamenti informali, nelle campagne di Taurianova, Rosarno, Rizziconi, dove al problema della promiscuità, si aggiunge la difficoltà di accesso all’acqua, a servizi igienici adeguati, elettricità e riscaldamento. In totale si stima una presenza di almeno 1.500 lavoratori diffusi in tutta la Piana di Gioia Tauro.
Questa situazione, di segregazione spaziale e sovraffollamento, è oggi ulteriormente aggravata dalla diffusione del Covid19 e in virtù delle disposizioni governative che limitano la mobilità per contenerlo. Di fatto, i tanti lavoratori senza contratto che abitano fuori e dentro la tendopoli di San Ferdinando, oltre a non poter adeguarsi alle disposizioni di distanziamento sociale previste, sono peraltro alla fame in quanto impossibilitati a procacciarsi sul territorio mezzi minimi di sostentamento. Quelli che hanno tentato di recarsi al lavoro, privi di un’attestazione che ne giustificasse la mobilità, sono stati obbligati a rientrare ai propri alloggi e multati dalle forze dell’ordine. Inoltre, volta ormai al termine la raccolta degli agrumi, diventa impossibile percorrere i circuiti di mobilità stagionale e raggiungere altre regioni per le nuove operazioni di raccolta.
Si aggiungono, dunque, nuovi problemi, ma anche questi affondano le loro radici nelle risposte di carattere umanitario ed emergenziale avanzate dalle diverse coalizioni di governo che si sono succedute alla guida del Paese e della regione Calabria, negando il carattere strutturale del lavoro migrante in agricoltura e lasciando senza soluzione i bisogni abitativi ed economici. Per contrastare le pratiche di sfruttamento, infatti, non sono stati introdotti meccanismi di intermediazione e inclusione lavorativa, né tantomeno servizi di trasporto ai luoghi di lavoro. Nessun intervento concreto ha riguardato la riorganizzazione del settore produttivo o il coinvolgimento delle aziende agricole, schiacciate dalle pressioni di intermediari commerciali e potenti acquirenti. La tutela del diritto alla salute, prevalentemente affidata a organizzazioni non governative e di volontariato, mette invece in evidenza la destrutturazione dei servizi pubblici sul territorio. Tant’è che pure per la prevenzione e il contenimento del Covid19, la regione Calabria ha predisposto l’attivazione di unità mobili come presidi sanitari per raggiungere i lavoratori migrati all'interno degli insediamenti informali.
In questa fase si ripropongono insomma soluzioni infantilizzanti e caritatevoli, che lasciano i migranti ai margini di ogni negoziazione, rendendoli meri spettatori di interventi che ne ostacolano l’emancipazione sociale. Si accentuano così situazioni di insofferenza e tensione sociale, come dimostra l’ultima protesta scoppiata nella tendopoli di San Ferdinando lo scorso 31 marzo, quando alcuni lavoratori hanno impedito l’installazione di una cucina da campo e rifiutato il servizio di mensa che avrebbe dovuto offrire la Caritas con il supporto della Protezione Civile, chiedendo in cambio risorse economiche direttamente nelle loro mani. D’altra parte, la rivendicazione della capacità di rispondere in autonomia ai propri bisogni, innanzitutto attraverso un salario giusto e documenti di soggiorno, accomuna i lavoratori migranti che lavorano nelle diverse regioni italiane.
La crisi epocale che stiamo vivendo sta facendo emergere le contraddizioni e i limiti del sistema economico-produttivo, in primis quello agro-alimentare, oltre che delle politiche migratorie e di accoglienza-inclusione. Ma esistono soluzioni che potrebbero servire a rispondere ai bisogni dei lavoratori migranti, e contemporaneamente ad avviare un vasto piano di rigenerazione urbana e sociale, come quella avanzata dal Comitato per il riutilizzo delle case vuote della Piana (ne sono state censite 35.000 nella sola Piana di Gioia Tauro), rilanciata in un recente appello indirizzato alle autorità regionali. La regolarizzazione dei migranti irregolari (circa 562.000 unità a livello nazionale), il riconoscimento dell’asilo politico e del diritto all’iscrizione anagrafica, insieme alla promozione di strumenti di contrasto allo sfruttamento del lavoro e di modelli agro-alimentari sostenibili, rappresentano comunque passi imprescindibili per affrontare le attuali disuguaglianze e flagranti violazioni dei diritti umani, nonché la condizione di crisi socio-economica che in alcuni territori vi è collegata.
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