Questo articolo fa parte dello speciale Viaggio nell'Italia dell'emergenza
Per definizione, un’isola è “una porzione di terraferma completamente circondata dalle acque di un oceano, un mare, un lago, un fiume”: nel caso della Sardegna il mar Tirreno. Sembra stupido richiamare nell’incipit una banale definizione ma è invece significativo notare che una delle più importanti caratteristiche che derivano dal vivere in un’isola, l’essere strutturalmente isolati, non è valsa come difesa. Il Covid-19 infatti è entrato nel territorio sardo e ha mietuto le sue vittime: al 2 maggio, si contano 1.315 casi di contagio e 119 deceduti, con un rapporto di decessi sui casi totali tra i più alti delle regioni del Mezzogiorno.
Non solo; a metà aprile il presidente della Giunta regionale, il sardista Christian Solinas, certificava come quasi l’85% degli infetti avesse contratto il virus nelle strutture sanitarie pubbliche e private dell’isola. In cima alle liste dei “luoghi di esposizione” troviamo gli ospedali, dove si è registrato il 69% dei contagi; a seguire le Rsa (comprese le case per anziani) con il 15,7% dei positivi. Solo il 7,8% dei contagi si è verificato al di fuori delle strutture socio-sanitarie, mentre per il 7,5% di casi non si è riusciti a ricostruire la catena dei contagi e sono stati classificati come “verificati in un luogo non precisato”.
Un elemento sconfortante di evidente impreparazione dei centri di comando, ma non quanto il fosco dato sull’appartenenza professionale dei contagiati: 271 sono medici, infermieri e oss, cioè il 24% del totale degli infetti, il doppio rispetto al dato medio nazionale.
Una storia, questa del Covid-19, che parla soprattutto sassarese, giacché il 65% dei casi si è verificato nel “Capo di Sopra” con il rimanente fenomeno emerso “a macchia di leopardo” nell’isola, mostrando in tutta la sua tragica evidenza l’inadeguatezza della macchina politica regionale nella gestione della difesa della salute pubblica. Un’inettitudine che trascolora in stupida e pericolosa arroganza laddove – discutendo in un’intervista l’elevato numero dei contagi fra il personale sanitario – l’assessore regionale alla Sanità, Mario Nieddu (quota Lega in Giunta), affermava candidamente: “ci può stare”.
Infatti, dimostrare di essere unfit, come dicono gli inglesi, pare sia stato un chiodo fisso per i punti apicali della politica isolana, quasi un pallino paranoico dai primi giorni di marzo fino al 2 maggio, data di emanazione dell’Ordinanza n. 20, quella che dovrebbe rappresentare l’inizio della “Fase 2”. Al di là dei contenuti, in evidente contrasto con il Dpcm del 26 aprile e dunque a forte rischio di illegittimità, la sprovvedutezza e l’incompetenza appaiono evidenti in tutto il loro splendore nella “forma” con cui vengono esposte le direttive: avete mai visto un atto pubblico, un’Ordinanza regionale, con tre articoli numero 21? Ebbene, qui in Sardegna, in un momento di tragico bisogno di punti di riferimento saldi, siamo riusciti a partorire questo mostro.
Luca Pani, lo psichiatra che insieme all’infettivologo Vella, al genetista Cucca e al virologo Cappuccinelli, faceva parte del “Comitato di esperti” nominato dal presidente Solinas il 28 marzo scorso, lasciando in malo modo il team dopo neanche un mese di attività, ha parlato di “delirio di incompetenza”. Ma non sempre si è incompetenti. Soprattutto quando “si tratta di trattare” con il privato. Ecco, qui i punti apicali della politica locale hanno dimostrato un solare stato di grazia.
A fine marzo viene varato il “Piano strategico per l'attivazione progressiva di strutture di area critica”. In breve, per far fronte alle necessità che si sarebbero potute presentare, il piano prevedeva una progressiva riorganizzazione dei presidi sanitari dell'isola, individuando le strutture ospedaliere – comprese quelle private – dedicate alla cura dei pazienti contagiati da Covid-19. In particolare, le tre strutture private individuate sono il Mater Olbia (creato grazie alla Qatar Foundation Endowment), il Policlinico sassarese e il Città di Quartu. La delibera 16/3 del 26 marzo specifica le condizioni economiche della possibile compromissione del privato nella gestione sanitaria anti-Covid, mettendo in luce un’illuminante professionalità che sinteticamente tratto per punti: a) la delibera stabilisce quanto guadagneranno le strutture private sull’epidemia Covid-19: 250 euro/giorno per ricovero semplice, 538 euro/giorno per ricovero in sub-intensiva, 900 euro per terapia intensiva. Ma, con sconcertante candore, specifica anche che il prezzo è stato imposto dai privati; b) alle cliniche la Regione riconosce un ulteriore “finanziamento di funzione”. Infatti, la scelta è caduta su tre cliniche private non prontamente attrezzate per la gestione Covid: tutti i necessari costi organizzativi, gestionali e funzionali sono intesi come “aggiuntivi”, e quindi riconosciuti dalla Regione; c) “vuoto per pieno”: le tre cliniche private hanno il diritto di incassare l’80% della somma dovuta con la piena occupazione dei posti letto concordati anche se curano un solo paziente, o pochissimi, come è realmente accaduto fino al 27 aprile, quando il Mater Olbia ha cessato di operare come Covid Hospital.
Un fiume di denaro pubblico (quasi due milioni di euro) dirottato verso il privato, benché non pronto al momento della scelta, laddove si sarebbero potute recuperare e riqualificare alcune strutture pubbliche esistenti e sottoutilizzate, come quelle di Thiesi, Alghero e Ittiri, sedi di ospedali che già ospitano reparti di lungodegenza ma con corsie chiuse.
Insomma, una regione, quella sarda, che pur avendo avuto la possibilità di utilizzare la naturale conformazione insulare per difendersi efficacemente da agenti esogeni, sembra invece costretta a difendersi dalle dimostrate e solide incapacità di soggetti endogeni. Come dicevano i dominatori spagnoli che per oltre quattro secoli hanno dettato legge in Sardegna: “Además del daño la burla”.
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