Dopo oltre 50 giorni di quarantena, a Roma ci si continua a fare una domanda: perché qui l’epidemia non è mai davvero scoppiata? Lo si può dire trattando ancora il tema con le pinze (recentissima la vicenda di un focolaio nel popoloso quartiere del Nuovo Salario, dentro una università e residenza salesiana), ma i numeri aggregati dicono questo. In tutto il Lazio si contano, secondo l’Istituto superiore di sanità, “solo” 304 morti – attenzione: i dati differiscono da quelli forniti dalla Protezione civile – e 6.001 casi (di questi, quasi due terzi sono fra Roma e provincia). Se guardiamo al differenziale dei decessi fra il 2019 e il 2020 (riferimento 8 aprile), a Milano si conta un aumento del 96%, a Roma del 6%. Qualsiasi grande città del Centro Sud, a esclusione di Palermo, mostra un delta superiore a quello romano.

Eppure Roma è una città di interscambi: quasi 30 milioni di turisti che entrano in città ogni anno; più di 60 collegamenti giornalieri diretti, tramite alta velocità ferroviaria, fra Roma e Milano; 3 voli diretti giornalieri tra Wuhan e Fiumicino. Roma è poi sede di istituzioni internazionali, sedi diplomatiche, istituzioni religiose, grandi università. E soprattutto possiede quasi 3 milioni di abitanti. In altri Paesi, pensiamo al dramma di Madrid, le capitali sono divenute luoghi naturali di contagio. Di nuovo: perché Roma no? Questa è la prima domanda. La seconda è: e dopo? Come impatta tutto ciò su una città già in crisi economica?

Rispetto alla diffusione del Coronavirus, potremmo dire che

  1. Roma ha avuto una certa fortuna: non una grande spiegazione, ma senza dubbio il lockdown è arrivato per tempo, prima che la malattia potesse fare ulteriore danno. Un lockdown reale, grazie a un terziario che ha smesso di lavorare completamente – quello di turismo, commercio e ristorazione – e un terziario “da ufficio” che ha potuto lavorare da casa;

  2. avendo conosciuto sul suo territorio i primi due casi conclamati di Coronavirus in Italia, due turisti di Wuhan trovati positivi il 28 gennaio, i protocolli necessari sono stati allertati per tempo, grazie a un centro di rilevanza mondiale come il Lazzaro Spallanzani, che ha anche svolto un ruolo di guida nella definizione dei protocolli di molti centri del Lazio: separare per tempo i percorsi per i pazienti Covid, dare un certo tipo di attenzione all’organizzazione sanitaria e dei centri Covid, creare gruppi di lavoro ad hoc. Non tutto è filato liscio (lamentele ce ne sono state), ma questo anticipo e la presenza di un’istituzione come lo Spallanzani hanno fatto la differenza;

  3.  le grandi infrastrutture sanitarie, in questo caso, sono state di grande utilità: un altro esempio è quello dei famosi tamponi. Anche qui si sono ascoltate lamentele – soprattutto di sintomatici mai trattati e restati a casa – ma la presenza di quattro fra i più grandi ospedali d’Europa ha permesso di mettere in moto la macchina del monitoraggio sanitario. I tamponi nel Lazio sono stati circa 110 mila, quanto in Piemonte (la seconda regione più colpita d’Italia);

  4. è stato, al contrario, un elemento positivo la – relativa – scarsa presenza di Rsa, se comparata con l’ormai famigerato caso lombardo (e non solo): in Lombardia sono presenti 678 Rsa (una ogni 15 mila abitanti), in Piemonte 608 (una ogni 7 mila), nel Lazio 207 (una ogni 20 mila).

Modello Roma, modello Lazio? Per fortuna non abbiamo la controprova, fino a ora, di come potesse lavorare questo sistema sotto il peso di uno stress maggiore. Ma qual è il problema ora? Lo stesso che esisteva prima della crisi economica che accompagna il Covid: il futuro. Nel breve/medio periodo (la famosa “fase 2” e il ritorno verso la normalità) e nel lungo.

In un testo pubblicato qui quasi tre anni fa, si era scritto che la crisi di Roma (un decennio di depressione) aveva prodotto comportamenti adattivi: “si perde il posto di lavoro e lo si reinventa, oppure si fa lo stesso lavoro chiedendo meno. Il romano si mette in proprio, si arrangia e saluta il posto al ministero: ditte individuali, partite iva e tanta «economia dei piani terra» (definizione di Stefano Sampaolo). Corsi da pasticciere, da pizzaiolo… e poi l’attività in proprio: minimarket e ristoranti take away crescono, in 6 anni, del 20%. Economia del food per necessità e per adeguamento al turismo low cost, in costante crescita, della città”. Questo sistema cederà in più punti, per tacere di altre situazioni di sofferenza (l’economia della cultura, per fare un solo esempio). Anche qui andiamo per punti, sacrificando la cura analitica che questi temi dovrebbero meritare (sono solo 5, ne mancano almeno altrettanti):

  1. l’impatto sul turismo (ristorazione e alberghiero), come paradigma dello shock nel breve. Ben oltre la metà delle presenze negli alberghi romani sono legate ai turisti stranieri, che concentrano poi le loro spese in zone determinate della città. Gli stranieri non si vedranno per un anno, e bisogna sperare in un riavvio parziale (italiano) entro sei mesi: il tasso di espulsione di attività e occupati dipenderà da tanti fattori (liquidità, portata del sostegno dello Stato, situazione debitoria, modello di business). Un punto critico è l’accesso al denaro pubblico (nelle diverse forme che potrà avere): la “filiera decisionale” che lo regolerà è europea, nazionale e locale. Si tratta di una politica complessa, le istituzioni locali dovrebbero monitorarne l’esito ed essere attori attivi nella ricerca delle soluzioni. Chiedere questo alla sindaca Raggi è troppo, eppure va coinvolta.

  2. Due spettri si aggirano per la città, quello delle locazioni e dell'economia di prossimità. Ha a che fare anche col punto 1 e con l’abitativo. Serve – come sostiene l’architetto Enrico Puccini – una “Agenzia romana degli affitti” che aiuti a calmierare i prezzi, fornendo però garanzie ai locatari. Va affrontato il tema dei 116 mila posti letto offerti – con una regolazione del fenomeno ora inaccettabile – dalla piattaforma Airbnb: una parte consistente di essi va riportata nella “filiera corta” della locazione a uso non turistico? In questo momento sono vuoti: di fronte abbiamo una mutazione dei comportamenti del turismo che ancora non conosciamo e una contrazione di medio periodo dei redditi (a livello globale). La Cna lancia un allarme forse da worst case scenario, nel quale chiuderebbero 2.500 ristoranti e 2300 bar. Per gli altri, fino al 70% in meno di fatturato. Più solidi gli esercizi dei quartieri periferici e semi-periferici densamente popolati, mentre una Caporetto in centro: il modello di sviluppo attuale – città parco a tema low cost – andrebbe rivisto, definendo strategie e obiettivi.

  3. Sulla ripresa pesa la distrofia della Pubblica amministrazione. Fabrizio Barca sosteneva che nella Pa italiana servissero 500 mila nuove assunzioni (con profili che offrissero competenza e qualità): con questa crisi ne serviranno di più; a Roma ne servirebbero in proporzione, organizzati per obiettivi e necessità, al fine di costruire un’azione congiunta dentro i vasi non comunicanti della Pa. Senza buona pubblica amministrazione non c’è buona economia, tanto più in un periodo di crisi. Nell’immediato, per esempio, servirebbe aprire cantieri per le micro-infrastrutturazioni: scuole, ospedali, spazi pubblici… ma per fare questo serve una cabina di regia (regionale?) che assista i comuni nella produzione di bandi di gara, compresa Roma. Come fare in modo che i difetti del prima non si moltiplichino nel dopo?

  4. Chi informa la Pa in un momento così complesso? Risulta cruciale la produzione di conoscenza e dati per una Pa che assuma decisioni data driven (pensiamo all’apocalisse della mobilità che ci attende, pur essendo quello un settore nel quale esiste un’ottima qualità della produzione di dati): ma la Pa deve essere in grado di produrre una strategia che cerchi i dati che le servono veramente; ha bisogno di personale che sappia trattarlo e produrlo;

  5. detto ciò, la società deve organizzarsi. Saranno tempi duri: alle agenzie tradizionali della cura del sociale devono aggiungersi nuove forme di mobilitazione, per organizzare la domanda e forme di aiuto per vecchie e nuove fragilità. Non sappiamo quanto il tema della povertà si affaccerà nell’orizzonte della politica romana. Nella ricerca dell’Osservatorio “Roma! Puoi dirlo forte” sulle opinioni dei romani, Tobia Zevi sottolinea come esso apparisse ancora secondario pochi mesi fa, mentre ora potrà diventare centrale: dipenderà anche dal protagonismo delle decine di attori che si stanno occupando, già ora, della città che si è impoverita.

L’analisi è incompleta e manca una pars costruens (ci sarà occasione). Ma c’è materiale a sufficienza per continuare a discutere, individuando centralità di sviluppo (pubblico e privato) attorno alle quali ricomporre la città, più solide della disneizzazione del centro turistico.
 

[È doveroso ringraziare le persone che hanno fornito un parere, molto più ampio e competente di quello che si è potuto rendere qui: Michele Azzola, segretario generale della Cgil di Roma e del Lazio; Andrea Capocci, giornalista scientifico; Giovanni Caudo, presidente del III Municipio di Roma e urbanista; Sarah Gainsforth, giornalista, autrice di Airbnb città merce; Luca Incerti, architetto e data analyst; Alessandro Nucara, direttore generale di Federalberghi; Tobia Zevi, presidente di “Roma! Puoi dirlo forte” e responsabile Desk “Global Cities” dell’Ispi]

 

 

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