Questo articolo fa parte dello speciale Viaggio nell'Italia dell'emergenza
Parlare di Piacenza oggi significa parlare di logistica, anche quando si tratta di Coronavirus. In questo territorio con forti influenze lombarde e genovesi, infatti, logistica e industria formano un reticolo di stabilimenti, hub, vie di comunicazione e centri urbani che costituiscono la megalopoli padana. È attraverso questo tessuto produttivo che Piacenza è collegata alle province padane limitrofe (Pavia, Lodi, Cremona, Parma) senza soluzione di continuità: la mobilità quotidiana fra una provincia e l’altra, per andare a lavorare, a scuola o all’università, per far visita ai familiari è altissima. E questa megalopoli, con le sue rotte commerciali internazionali, rappresenta una delle teste di ponte europee verso gli altri grandi centri della divisione del lavoro globale. Come poteva accadere che il virus non attraversasse questa porta?
È proprio a Piacenza che comincia una parte della storia italiana del contagio, anche se qui immaginario e realtà iniziano a confondersi. Nei giorni di Codogno e Vò Euganeo, quando l’Italia scopre che il virus è arrivato, parte la ricerca del «paziente zero», la persona che avrebbe veicolato il virus dalla Cina per poi trasmetterlo al «paziente 1», il trentottenne di Codogno ricoverato a metà febbraio. Ricostruendo le frequentazioni e gli spostamenti del paziente 1, il sospetto untore viene individuato in un suo amico, un manager della Mae. La Mae è una ditta di una settantina di dipendenti che produce stampati plastici e materiali in fibra di carbonio e che si trova a Fiorenzuola d’Arda, sulla via Emilia, a metà strada verso Parma. Il manager faceva la spola fra la Cina e l’Italia più volte durante l’anno. Per quanto plausibile la pista si rivelerà falsa, l’uomo infatti non ha mai contratto il virus.
Le teorie del complotto sono come un albero che nasconde la foresta: poco importa che il «paziente 0» fosse o non fosse il manager di una ditta piacentina. Era solo questione di tempo e il virus sarebbe arrivato per le stesse porte di accesso da cui ogni giorno transitano merci e persone. Così come si diffonde biologicamente fra i corpi e nei corpi attraverso i tessuti cellulari, analogamente il virus ha sfruttato il tessuto logistico per compiere il suo salto di continente. Così come si diffonde biologicamente fra i corpi e nei corpi attraverso i tessuti cellulari, analogamente il virus ha sfruttato il tessuto logistico per compiere il suo salto di continenteE così, quando l’arrivo del virus è stato finalmente accertato in Italia, Piacenza era a pochi chilometri di distanza dal focolaio di Codogno, appena al di là del Po, la prima stazione in cui i regionali per Milano fanno tappa dopo aver lasciato il capoluogo emiliano.
Quando con il decreto dell’8 marzo Piacenza, insieme alla Lombardia e ad altre 13 province, diventa zona rossa, fra la popolazione la paura prende il posto dell’indifferenza. Ma la logistica, il commercio e la manifattura non si fermano. L’industria non si fermerà prima della settimana successiva, e probabilmente più per mancanza di forniture o ordini annullati che per particolari preoccupazioni sanitarie. Su grande distribuzione e logistica, invece, i governi locali, nazionali e sovranazionali sono stati chiari: l’infrastruttura dell’approvvigionamento deve rimanere in funzione. Da essa dipende la tenuta non solo alimentare della popolazione, ma anche quella psicologica dell’ordine pubblico. Il problema però è che la protezione della salute dei cittadini non prevede quella dei lavoratori, o almeno le due non sono perseguite con paragonabile risolutezza.
Quando esplodono gli scioperi la tensione è alle stelle perché nei magazzini – così come nei supermercati, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle case benestanti – non ci sono Dpi per chi lavora, non c’è formazione all’utilizzo, ma in compenso c’è molto lavoro da svolgere perché la gente sta ordinando online e i supermercati vanno riforniti freneticamente per tenere il passo dell’accaparramento di massa.
Secondo Floriano Zorzella, segretario piacentino della Filt-Cgil, le aziende hanno temporeggiato fino all’ultimo prima di dare una risposta alle inquietudini dei lavoratori. Ai cittadini e ai lavoratori è stato rivolto un «messaggio ambiguo: da un lato stare a casa e dall’altro andare tutti giorni in magazzino a contatto ravvicinato con centinaia di persone. E di questo i lavoratori si sono resi conto». «Sono state molto poche», continua, «le aziende che hanno proceduto a sanificazioni e tutte sono state riluttanti ad avvalersi della cassa integrazione per ridurre il personale, come noi suggerivamo». Inoltre, anche quando finalmente, e con ritardo, le ditte hanno iniziato a recepire i decreti e le loro prescrizioni sulla sicurezza, «la documentazione prodotta non era adeguata, priva di qualsiasi valore aggiunto: per esempio nel magazzino di un colosso multinazionale del mobile i manager ci hanno inviato delle semplici slide! Il comportamento delle aziende ha incrinato il rapporti di fiducia non solo con i sindacati ma anche con i lavoratori stessi».
Di fronte all’inerzia di molte aziende – cui contribuisce la natura frammentata delle catene logistiche, spezzettate in società madri e filiali, appalti, consorzi e subappalti – le iniziative di protesta si sono diffuse a macchia di leopardo, in forme sia spontanee sia più organizzate. I primi scioperi nei magazzini piacentini sono guidati dal sindacato di base Si-Cobas – che gode di un radicamento particolarmente forte nel territorio sin dalle prime mobilitazioni del 2011. C’è un primo sciopero alla XPO di Pontenure il 10 marzo e le mobilitazioni raggiungono il culmine tra il 12 e il 13 marzo (Gls a Piacenza, Geodis a Castel San Giovanni, Tigotà a Stradella), un giorno prima del Protocollo che sarà sottoscritto da governo, sindacati e imprese. È in effetti l’ondata di mobilitazioni, in buona parte spontanea, che attraversa l’Italia in quella settimana a imporre nei luoghi di lavoro non solo la questione della sicurezza, ma anche, pur se in maniera solo potenziale, quella del controllo operaio sulla produzione: che cos’è un bene essenziale? Chi lo definisce, data l’ambiguità delle definizioni normative? Chi monitora la concreta applicazione delle misure di sicurezza?
Le mobilitazioni continuano nel territorio piacentino e la settimana successiva è il turno di Amazon a Castel San Giovanni, dove, il 17 marzo, viene proclamato da Cgil, Cisl e Uil uno sciopero a oltranza per costringere l’azienda ad adottare le precauzione necessarie a tutelare la salute dei suoi 1.600 dipendenti – ai quali, in questo periodo di picco emergenziale e di assenteismo, si aggiungono centinaia di interinali. Lo sciopero termina la settimana successiva, quando le sigle sindacali e l’azienda concludono un accordo per la costituzione di un comitato, composto dalla direzione e dai delegati sindacali e incaricato di monitorare la sicurezza. Al momento però, denunciano i lavoratori, l’azienda starebbe ostacolando le attività di controllo da parte dei delegati.
A partire dalla fine di marzo, per i lavoratori della logistica si aggiunge alla questione della sicurezza quella del reddito e della sopravvivenza economica. «C’è stata una prima fase iniziale in cui abbiamo accompagnato gli scioperi che venivano organizzati più o meno spontaneamente», spiega Carlo Pallavicini, portavoce del Si-Cobas piacentino, «e il culmine c’è stato intorno al 12-13 marzo, con partecipazione anche del 100% in alcuni magazzini in cui siamo presenti. Varie aziende hanno chiuso e messo in cassa integrazione oppure sono rimaste aperte con turnazione al 30% e cassa integrazione». Dal 20 marzo si è aperta invece una nuova fase, «in cui il problema urgente è diventato quello del reddito». Sono così partite le faticose trattative aziendali per le attivazioni della cassa integrazione e soprattutto sul versamento delle prestazioni: «passano due tre mesi di trattativa a distanza per chiedere l’anticipo… un incubo… quindi abbiamo dovuto chiedere e ottenere che le aziende anticipassero i versamenti per poi recuperarli dall’Inps».
Un altro problema è stato quello degli assegni familiari. Il nuovo ammortizzatore sociale previsto per integrare i redditi da lavoro dipendente nel settore della logistica è il Fis (Fondo integrazione salari). A differenza della classica Cig, il Fis non include il versamento degli assegni familiari, che costituiscono un’entrata decisiva nel bilancio delle famiglie di moltissimi lavoratrici e lavoratori della logistica. Il Si-Cobas ha quindi denunciato e ottenuto, dopo giorni di negoziazione, l’eliminazione di questa norma discriminatoria, come poi riconosciuto dallo stesso ministero del Lavoro.
Conclusa questa partita restano le incognite del dopo crisi. L’impatto delle chiusure avrà ripercussioni fortissime e contribuirà ad accelerare processi di ristrutturazione già in corso, accentuando con ogni probabilità la concentrazione di capitali e quote di mercato nelle mani di sempre meno attori economici. Questo porterà probabilmente a chiusure e accorpamenti di società. Tra i lavoratori della logistica si diffonde l'inquietudine: «L’umore non è alto. I lavoratori sono molto spaventati per la loro sicurezza economica, non solo quella fisica, e molti chiedono di tornare al lavoro», conclude il portavoce del Si-Cobas.
Nel frattempo, il bilancio delle perdite umane è pesante. Per numero di vittime la provincia è fra le prime otto in Italia, ma fra la prime tre se i contagiati vengono conteggiati in proporzione alla popolazione. Secondo i dati Istat riportati dalla stampa locale, Piacenza avrebbe registrato un aumento dei decessi del 309% rispetto all’anno precedente, poco meno del 322% di Crema e del 382% di Bergamo. Piacenza paga la densità abitativa e soprattutto le conseguenze dell’alta mobilità del lavoro e delle merci, in particolare il suo essere la principale piattaforma logistica in ItaliaCome le altre province con cui condivide questi primati, Piacenza paga la densità abitativa e soprattutto le conseguenze dell’alta mobilità del lavoro e delle merci, in particolare il suo essere la principale piattaforma logistica in Italia. Da parte loro gli industriali non hanno mai smesso di fare pressione per tornare ad aprire gli stabilimenti, promettendo di adottare tutte le precauzioni necessarie, ma comunque facendo capire che il comune, la provincia e il Paese intero non possono permettersi ulteriori settimane di chiusura. Così, a inizio aprile, 1.300 aziende, sfruttando le pieghe dei decreti, hanno comunicato al prefetto la riapertura dei loro stabilimenti. Questo ha suscitato le preoccupazioni degli amministratori locali e persino le proteste degli infermieri della provincia, che hanno minacciato nel loro comunicato: «state a casa, fermate le attività ancora per qualche giorno. Invertite la rotta o saremo noi infermieri a fermarci». Dalla scorsa settimana, dopo il decreto del 14 aprile, buona parte delle attività produttive sono ripartite. Solo pochi giorni prima Marco Revelli sul «il manifesto» aveva scritto: «Forse perché il nostro è un capitalismo double face, intenso nei suoi baricentri – e la Lombardia è tale – ma fragile. Iperattivo nella sua molecolare interazione ma debole nella sua struttura di fondo, tecnologica e finanziaria. Un po’ come quello spagnolo. È qui che il Coronavirus ha trovato le proprie praterie…».
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