Tristemente oggi Venezia somiglia alle sue foto. Somiglia a quelle immagini appiattite, depurate dai passanti, che solo quella precisa estetica formalista dell’io turistico continua a cercare nei frammenti di esotico del pianeta. Eppure oggi questa immagine pare solo la rappresentazione della fine di un banchetto. Acque acquietate riflettono ora l’osservatore che si perde nel loro specchio, nell’eterotopia che svela quel sé oggi dotato di maschera. L’acqua. Migliaia di foto di autoreclusi si concentrano oggi sull'acqua, quest’acqua mai vista così ferma, così limpida, improvvisamente viva e pescosa nonostante e anzi contro la sospensione generale che la circonda. È la “rinaturalizzazione”, quella forza di edera che altrove avvolge tessiture scheletriche di cemento evocando naturalmente la domanda esistenziale sulla essenza di quest’epoca che abbiamo imparato a chiamare antropocene.

Eppure tutta questa immobilità sinistra ancora attira il nostro sguardo incuriosito, proprio ora che Venezia appare un museo chiuso. Ora che questo fiume di trenta milioni di persone che ogni anno la attraversa diventa improvvisamente solo un solco essiccato, lasciando vedere per la prima volta quel suo fondo arso, svuotato da quell’unica funzione quasi ossessiva che lo caratterizzava. Qui e lì si vedono solo sfrecciare indomiti corrieri presi dalle solite consegne di pacchi, come sempre fuggevoli nel dedalo delle strette calli per portare a domicilio quelle merci che nella città già non si trovano da decenni, almeno da quando i ristoranti hanno cannibalizzato le ferramenta e i tappezzieri. E così Venezia non è la città dell’altro ieri, quella città romanzata che si innervava in quella sua trama orientale di artigianato e botteghe, e non è già più nemmeno la città di giusto ieri, quando era ancora la destinazione ambita da milioni di cercatori d’oro. Venezia è oggi improvvisamente solo uno scheletro che ricorda gli spazi vuoti della Berlino di Rossellini, e le maschere oggi hanno tutt’altre fattezze, sono diventate autoproduzioni posticce dalle forme finalmente originali.

Saldo Achab sta nella tolda della sua nave ammiraglia, sta come uomo solo al comando nella sala cementizia del Tronchetto, in un centro di controllo riempito di schermi di sorveglianza che somigliano agli occhi onnidirezionali d’una mosca. Lì ha fatto dimora il sindaco capitano, Luigi Brugnaro, che dopo un lungo silenzio è ora tornato in gran spolvero a dirigere con piglio padronale estenuanti dirette Facebook fatte solo di monologhi senza opposizione. Il sogno inconfessabile di ogni Napoleone è parlare alla folla, ogni giorno, alla stessa ora. Talvolta il sindaco vestito in giacca nera presenta dati mirabolanti, altre volte banali immagini del suo cellulare che raccontano improbabili colloqui di questo figlio-del-popolo con un ordinario spazzino del rione. Più spesso si lancia in invettive contro un’opposizione immaginaria (“Criticate, criticate, tanto segniamo tutto e vedremo a tempo debito”) oppure cerca di vantare competenze in campo scolastico, insomma improvvisa, quasi che si trattasse solo di intrattenere il popolo in attesa di capire cosa succederà dell’intera nostra nazione. Questo virus ha risvegliato, ormai lo sappiamo, una certa inquietante vocazione alfa al controllo e alla leadership e questa tentazione non ha certo risparmiato la Laguna.

Ma il sindaco è anche l’ex presidente della Confindustria locale e come imprenditore dal fatturato milionario (Umana holding) non dimentica che questo lockdown minaccia fin dalle radici il futuro delle imprese. Si percepiscono nei suoi occhi di capo d’azienda due precise pulsioni in lotta, la voglia di riavviare al più presto la macchina e l’orgoglio, ben più piccolo, di controllarne oggi i ritmi di chiusura, di dettare i tempi del nostro quotidiano.

Ma oggi Venezia non può certo riaprire e anzi, a dire il vero, questa città ha “chiuso” in clamoroso ritardo. I primi casi di Covid-19 in Veneto si sono registrati il 21 febbraio a Vo’ Euganeo, paesino in provincia di Padova che veniva “sigillato” il giorno successivo con decreto governativo. Domenica 23 il Comune di Venezia è costretto a chiudere scuole e musei su disposizione ministeriale, ma il Carnevale continuerà imperterrito fino alla mezzanotte portando decine di migliaia di persone a riversarsi in piazza san Marco, fatto questo che ha spinto in questi giorni il direttore dell’ospedale Civile Massimo Girotto a puntare il dito contro un probabile focolaio senz’altro evitabile. Il giorno 25 l’intera regione è dichiarata zona rossa”, ma il sindaco, e con lui il governatore della Regione, Luca Zaia, continua a minimizzare.  Il 28 febbraio Zaia arriva ad affermare che il Coronavirus è solo una psicosi internazionale e una pandemia mediatica vergognosa” e nella stessa giornata l’alleato Brugnaro lancia l’hashtag #VeneziaNONsiFerma, destinato a sua volta a scomparire nella Rete assai prima di diventare virale.

Nell’incontro con Confindustria del 2 marzo il sindaco di Venezia parla ancora di una tragedia sopratutto mediatica” invitando i turisti a visitare la città improvvisamente vuota, mentre due giorni dopo affermerà che il virus lo stiamo anche risolvendo [sic]”. Ma la riapertura dei musei, forzata dall’ottimismo del capo, si rivelerà presto un flop: già il 7 marzo Brugnaro è costretto a lanciare l’hashtag antigovernativo #nonsannoquellochefanno, che però rappresenta solo il canto del cigno del volontarismo magico del condottiero. Come noto, infatti, il giorno successivo il governo bloccherà tutte le attività che comportino assembramenti. Il 10 marzo il sindaco, ormai travolto dagli eventi, si dice completamente d’accordo” con la linea governativa, e il 13 lo vedremo infine contrito, avvolto nella fascia tricolore di rito, a omaggiare in solitaria preghiera la Madonna della Salute, chiedendo protezione e consacrando al sacro cuore immacolato di Maria sia la città sia “le terre venete”.

L’atmosfera di sospensione prelude a un futuro incerto, e in molti oggi sospirano un ritorno al passato. In questo clima fortemente aleatorio Confabitare, associazione dei piccoli proprietari immobiliari, si prodiga ad invitare i suoi associati a non iniziare a vendere, perchè il nemico peggiore che bisognerà sconfiggere sarà la paura”. Naturalmente si teme il classico effetto valanga delle bolle di mercato che in un contesto come quello veneziano – dove ormai un sesto degli appartamenti è sul mercato della locazione turistica – può tradurre la profezia del collasso in una realtà che collassa.

Due visioni ci possono oggi aiutare a immaginare lo scenario prossimo venturo della città lagunare. Il primo lo prendiamo da Watchmen, la miniserie televisiva di Damon Lindelof. Nella quinta puntata della prima stagione veniamo proiettati in una New York ucronica, una città oramai stigmatizzata dai turisti dopo un incidente dalla natura ambigua. L’amministrazione decide così di programmare una campagna pubblicitaria per spingere il mondo a riconsiderarla e ne esce uno spot dal titolo Come back to New York, nel quale una coppietta dice: “Siamo di nuovo qui per vedere Central park senza vedere nessuno, è così romantico”, mentre un sorridente poliziotto di colore conferma che “se la criminalità continua così resterò senza lavoro”. Ecco, questa pare la prospettiva dell’attuale giunta lagunare già impegnata a programmare un improbabile Carnevale agostano o settembrino affinché il business as usual” riprenda il tempo perso.

Una seconda visione, forse meno distopica, ci viene in soccorso da un imperdibile documentario sponsorizzato dall’Eni nel 1950, L'Italia non è un paese povero, di Joris Ivens. Nel film dai tratti buñueliani, Nane, il ragazzino che gioca con gli amici sugli scalini di un ponte, si addormenta in una piccola imbarcazione per risvegliarsi poi tra le micidiali ciminiere delle fabbriche di Marghera. Per sua fortuna quel risveglio si rivela solo un incubo e alla fine il ragazzino si desta realmente, ma tra le canzonature degli amici. Nane così torna ai suoi giochi e ai pochi fiori di campo che spuntano indomabili negli interstizi della trachite di questa città. In quel risveglio dall’incubo distopico c’è una diversa consapevolezza. Consapevolezza del valore intimo di questa forma urbis, della prossimità che genera, di tutti i limiti della monoeconomia che l’ha snaturata, prima e oltre quest’incubo pandemico.

 

 

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