In Sicilia, in fondo, non accade mai nulla di realmente diverso dal resto del Paese. Ma è qui, tuttavia, che gli avvenimenti comuni alla nazione assumono frequentemente le forme più vistose.  

A farlo pensare è il conflitto per l’attraversamento dello Stretto, sollevato con un post su Facebook, nella notte tra il 22 e il 23 marzo, dal presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci. Causa dell’accorata comunicazione era stata l’apparente svogliatezza nell’osservanza e implementazione delle ordinanze che restringono l’accesso all’isola dei viaggiatori provenienti da fuori regione, le quali impongono obblighi di auto-segnalazione alle autorità sanitarie, oltre all’auto-isolamento una volta giunti a destinazione.

Nel suo post Musumeci lamentava un certo lassismo da parte delle forze di polizia, operanti sulla costa calabrese e responsabili della scrematura dei viaggiatori. Come prova di ciò il presidente esibiva una foto, inviatagli da un rappresentante sindacali dei marittimi di Messina, che ritraeva il porto di Villa S. Giovanni invaso di auto quasi come nelle giornate di estate inoltrata.

Il post del presidente, tutto sommato inusuale rispetto al suo consueto stile comunicativo, sembrava assecondare soprattutto quell’aspirazione alla visibilità che ha preso a caratterizzare la condotta degli amministratori locali a partire da un certo punto della crisi sanitaria. Una diffusa aspirazione – riscontrabile a nord come a sud – che segue una breve fase di compostezza generale da parte di queste figure, vissuta nel cono d’ombra del governo centrale. Un tempo, comunque, che a molti politici è finito presto con l’apparire eccessivamente lungo e, probabilmente, pericoloso ai fini delle percezioni degli elettorati locali.

La mossa di Musumeci, tuttavia, non ha tenuto in debito conto le reazioni di un muscolare competitore che corrisponde al nome di Cateno De Luca, sindaco di Messina, ossia della città che da quel supposto flusso di auto e visitatori sarebbe stata interessata. De Luca, politico dalla comunicazione aggressiva, forte di una pagina Facebook da poco meno di 400.000 follower, già da tempo impegnato in una comunicazione dai toni allarmistici e sicuritari che amplifica al massimo le comuni retoriche nazionali sugli “irresponsabili”, ha colto l’urlo di preoccupazione di Musumeci e lo ha trasformato in un palcoscenico personale, incentrato sulla messa in scena del “blocco dei traghetti”.

Con una diretta social che, contando le visioni che si sommeranno anche in seguito, avrà alla fine due milioni di spettatori, senza contare i passaggi televisivi sulle reti Fininvest, De Luca trasformerà lo spettacolo in una messa in stato d’accusa del ministero degli Interni e del presidente della Regione, finendo per alcuni giorni come ospite regolare di trasmissioni televisive nazionali dal grande seguito popolare. Oltre a essere, nei giorni seguenti, denunciato proprio dal Viminale per vilipendio, nella sollevazione popolare e plebiscitaria della città. Un grandissimo risultato in termini mediatici per una operazione che – alla luce dei dati forniti dalla Polizia – non appariva giustificata dai numeri e che, soprattutto, alla fine della diretta, aveva portato all’individuazione di soli tre casi di persone non provviste dei requisiti necessari all’ingresso nell’isola.

È impossibile riportare qui tutti gli elementi assurti a simbolo più del protagonismo dei livelli locali di governo che di una efficiente gestione del rischio. È più utile, forse, discutere di come questo paragrafo siciliano della crisi suggerisca, su un piano eminentemente locale, che la competizione per la presidenza della regione è già iniziata e che, almeno in parte, questa si fonderà – se così è possibile sintetizzare – sulla contrapposizione tra il sicilianismo vigoroso e maschio di De Luca e la mollezza subalterna di Musumeci. Una competizione i cui termini e tempi sono dettati proprio dal sindaco della città dello Stretto, storicamente un uomo dalle campagne elettorali lunghe e incessanti.

Un effetto di questo protagonismo urlato consiste nel propagarsi di fenomeni di emulazione tra gli amministratori, specie quelli di secondo piano (come un fortunato video, circolato su tutte le principali reti di comunicazione internazionali, ha mostrato). Appare interessante osservare però come l’adozione di questi toni non sia, almeno per il momento, correlata a un’emergenza sanitaria dalle dimensioni minimamente comparabili a quella delle ex zone rosse settentrionali. In Sicilia l’angoscia pubblica degli amministratori ha attualmente un carattere “preventivo”, fondato sulla possibilità degli effetti di un’esplosione della pandemia sul sistema sanitario regionale.

Attraverso una dinamica funzionalmente analoga a quella dei tempi ordinari, tale determinazione preventiva viene traslata dal piano delle inciviltà urbane o dei reati giovanili (quello posto da circa un ventennio al centro delle politiche pubbliche rivolte allo spazio urbano, oltre che della politica internazionale) concretizzandosi così nell’evocazione dell’esercito. Ossia di quello che potremmo definire, dal punto di vista della cultura politica, come una coazione degli amministratori (oltre che di larghi settori reazionari dell’opinione pubblica).

Il basso sociale, naturalmente, elabora in modi differenti questi stimoli, fratturandosi secondo le comuni linee di divisione politica. Una parte maggioritaria – o, quantomeno, estremamente visibile sui social network oppure in coda ai commenti agli articoli dei quotidiani – apprezza questa impostazione, che corrisponde a una sensibilità pregressa e che combina l’ordinario senso comune penale con quello sanitario proprio del momento. Una elaborazione resa possibile dall’individuazione degli irresponsabili come nemici pubblici.

Una parte decisamente minoritaria oppone invece i richiami all’esercito sulla base o di un antimilitarismo generico oppure di una serie di considerazioni legate alla sproporzione tra situazione sanitaria e risposta politica.

Di certo è diffusa la consapevolezza che l’esercito è stato sinora pochissimo visibile, al punto che persino il presidente Musumeci ha dovuto lamentare l’esiguità dei soldati inviati da Roma, ammontanti ad appena duecento unità. D’altra parte, la presenza dell’esercito in Sicilia è stata negli anni costante dinanzi agli edifici sensibili (i tribunali, in primo luogo). E ai più la sua presenza non appare certo come una minaccia. Al limite è giudicata solo come una presenza inutile e simbolica. Ma è chiaro che la diffusa percezione del vacuo simbolismo della presenza militare, il quale appare replicare l’inconsistenza delle urla dei politici, assolva comunque per buona parte della popolazione una funzione “satisfatoria”. È sostanzialmente di manifestazioni di attivismo e cura, infatti, che hanno voglia i siciliani meno attenti agli aspetti tecnici e politici del governo.

Su un piano invece più generale possiamo osservare come la vicenda siciliana mostri che la crisi ha dismesso, almeno per una parte considerevole, gli aspetti tecnico-sanitari per assumere quelli politico-performativi. In questo quadro la pandemia viene degradata a sfondo di un’azione politica che ha come posta la “presenza” o l’“esserci” (il desein, insomma) dei politici di vario livello. Una modalità ispirata da automatismi culturali e d’azione fondati sulle ormai classiche dicotomie del governo dell’urbano (quella “amico-nemico”, in primis) anziché su quei principi di responsabilità e gerarchia che, secondo le buone prassi oppure la manualistica sulla gestione e la comunicazione del rischio, sarebbero raccomandabili al fine di limitare la sovrapposizione di toni e messaggi. Ciò, oltre che per uniformare le misure, come precauzione volta a evitare il germogliare di ordinanze e regolamenti locali che hanno l’effetto di produrre un pericoloso pluralismo normativo, il quale ha già fatto mostra di complicare gli interventi, allungando i tempi di reazione e sovrapponendo le responsabilità. Il contrario, insomma, di quel che sarebbe opportuno.

 

 

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