Questo articolo fa parte dello speciale Viaggio nell'Italia dell'emergenza
Dal 5 marzo vivo Torino come un’assenza, una lontananza imposta. Il pendolarismo da Torre Pellice (Valli valdesi) è interrotto e, da privilegiato, svolgo il mio lavoro da casa, 50 km dal capoluogo. Nelle mie giornate mancano tre ore di trasporto pubblico (treno, bus extraurbano, metro) in cui leggere, lavorare sul computer, connettersi e trasmettere il lavoro nel caso non infrequente di guasto o incidente lungo la linea. Quella connessione “volante” a cui il pendolare giornalista si affida per aggirare alcuni eventi straordinari è diventata la quotidianità, e si fa sentire la mancanza non solo dei colleghi, ma anche della città. Che pure ha tutti i suoi limiti, come quello di essere la località con l’aria maggiormente inquinata, secondo Legambiente, non solo nel 2019 ma anche lungo l’ultimo decennio.
Archiviata l’era-Fiat, dalla metà degli anni Novanta si è aperta la grande stagione del rilancio nel settore culturale e in una vocazione turistica non sempre convinta di sé stessa. Molto hanno inciso le Olimpiadi invernali e le Paralimpiadi del 2006: fu il momento in cui la città cercò di scoprire se potesse avere un nuovo futuro, nel momento in cui si avvertiva il calo della popolazione, a vantaggio della “seconda cintura” e della provincia (abitanti: 1.200.000 nel 1971, poco più di 800.000 oggi). Le religioni sono state una parte rilevante di questo movimento in origine poco noto, che sembrava limitato alla cappellania per gli atleti e i giornalisti, ma nasceva in un humus fertile.
A Torino il dialogo interreligioso si è innestato bene perché la città ha sempre avuto... una vocazione laica. Sembra paradossale, ma le Scritture ebraica e cristiana ci hanno abituati da sempre all’uso del paradosso. Giornalismo, politica e vita culturale improntati, come le scienze del Diritto, al pensiero liberale di Gobetti e poi di Norberto Bobbio, dei Galante Garrone, di Firpo, del Partito d’Azione. Ma anche, a modo suo, di Carlo Alberto, che, spinto da 600 cittadini cattolici e decine di sacerdoti, concesse i diritti civili e politici a valdesi ed ebrei, il 17 febbraio e il 29 marzo 1848. I valdesi si recarono poi in corteo a manifestare la loro gratitudine al re e al suo amico Roberto D’Azeglio. Gli ebrei attuarono una serie di interventi di beneficenza a vantaggio delle classi povere e delle opere di carità come il Cottolengo. Nella Torino dei “santi sociali”, le altre fedi capiscono, tengono a se stesse, ma dialogano.
La logistica aiuta: la sinagoga e il tempio valdese stanno in un fazzoletto di tre-quattro isolati, in una via intitolata a un papa, Pio V, persecutore degli eretici – ma la piazzetta di fronte al tempio israelitico da alcuni anni porta il nome di Primo Levi. E nei pressi ci sono anche moschee, una scuola gestita da suore; traversando il centralissimo corso Vittorio Emanuele, in breve si incontrano anche i luoghi di culto ortodossi, legati, come dappertutto, alle diverse nazionalità d’Oriente. Ma a che vale la logistica quando siamo tutti bloccati in casa? Serve a fornire il sostrato, a creare e rinsaldare la consapevolezza di un dialogo possibile, che si rinnova ogni anno in autunno, con i convegni dell’associazione «Ecumenica», dedicati di volta in volta a un tema specifico (pace e guerra, le donne, il cibo) dal punto di vista del dialogo fra religioni. Le tre abramitiche, ma anche induismo, buddismo e altre ancora. Le fedi sono in un certo senso abituate a fidarsi reciprocamente.
Ora, gli eventi straordinari ed emergenziali sono una cartina di tornasole per meglio capire le dinamiche fra persone e istituzioni, le identità e i conflitti, e il Covid-9, in materia di religioni, ci dice una verità profonda: quando si è in emergenza, si cerca di rispondere a due bisogni solo in apparenza opposti e contrari, inconciliabili. Da un lato si cerca conforto, sostegno reciproco fra coloro che naturalmente si riconoscono nell’identità e nelle radici comuni; si serrano i ranghi, cercando e spesso trovando nel simile-a-noi la conferma di una forza che la calamità mette in crisi ma non riesce a spazzar via. A volte si esagera – è successo a Torino – quando si diffonde una preghiera in stereofonia non sapendo quanto ciò possa essere gradito ai vicini di casa. Ma ci sta. Dall’altro si cerca – e gli italiani lo sanno fare – di andare oltre, di essere più aperti, di affratellarsi su balconi e terrazze, sospendendo il giudizio sulla politica ma convergendo sul plauso e sulla riconoscenza per operatori della sanità, Forze dell’ordine, maestranze delle industrie e delle infrastrutture che non possono fermarsi. Quelli che, diversamente da me, non possono “lavorare da casa”.
Un doppio movimento, quindi: ci si appoggia ai fratelli e sorelle in fede perché viene naturale anche solo per via telematica E d’altra parte, proprio in forza di un’appartenenza ben solida per antico retaggio viene la forza per andare oltre, incontro all’altro nel dialogo. Si vorrebbe incontrare e abbracciare tanta gente sconosciuta, come si fa, con riconoscenza, dopo una catastrofe grave ma circoscritta nel tempo: un terremoto, un’alluvione. La solidarietà e la riconoscenza muovono anche alla conoscenza reciproca. Ma per farlo bisogna sapere bene chi si è. Qui est déraciné déracine. Qui est enraciné ne déracine pas (Simone Weil).
Una rapida ricerca su Google ci dirà, a Torino come altrove, di una lunga serie di eventi ecumenici e interreligiosi annullati. Ma, per un’altra coincidenza di date, intorno al 6 marzo, Giornata mondiale di preghiera, nata intorno ai temi di pace e giustizia per volontà delle donne cristiane di tutte le confessioni cristiane, si sarebbero dovuti tenere incontri volti anche a denunciare la soggezione e la violenza in cui si trovano troppo donne oggi in tutto il mondo. Alcune iniziative sono state annullate, altre si sono tenute a porte chiuse, come a Torino. Ce n’è bisogno, anche perché, a Torino come altrove, “restare a casa” è per troppe donne un aggravio all’oppressione. Le religioni provano a fare la loro parte, anche per via telematica.
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