Quanto tempo è passato da quando il sindaco di Milano Beppe Sala ha dato avvio alla campagna #Milanononsiferma e il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti si è presentato sui Navigli per un aperitivo? Una veloce ricerca su Google suggerisce che è passato tanto tempo quanto quello che ci separa dal momento in cui il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, davanti alla telecamera vestiva un po’ goffamente una mascherina per fronteggiare il Covid-19. Erano gli stessi giorni in cui la carta stampata sembrava aver effettuato un’inversione di rotta, dai toni allarmistici a quelli più tenui, quelli in cui si cominciavano a contare i guariti in Cina, i contagiati asintomatici e “senza colpi di tosse”, come scriveva Repubblica.it il 25 febbraio. Ma se nel caso di "Repubblica" si può immaginare un’inversione di rotta stimolata anche dai comportamenti dell’area politica più affine, quell’inversione di tendenza era evidente pure nei giornali milanesi abitualmente solerti nel trovare anche le più impercettibili smagliature nelle performance del governo. E così, in quei giorni, "Il Giornale" titolava Il virus è Conte e "Libero" Virus, ora si esagera.

In un’ecologia dei media che ha la polarizzazione come principale cifra comunicativa, quei due momenti, la campagna #Milanononsiferma e la mascherina di Fontana, sono diventati immediatamente simbolo di due modi di affrontare quel pericolo dal nome Covid-19: un modo esiziale e rovinoso da una parte, necessario e drammaticamente opportuno dall’altra. Quel conflitto nella politica, interpretato dalle due autorità locali, a partire dalle loro scelte di comunicazione pubblica, era anche un conflitto – non troppo lontano nelle sembianze – all’interno del sapere esperto. È proprio di quegli stessi giorni, infatti, la dichiarazione di Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica dell'ospedale Sacco di Milano, che sostenne che il virus fosse poco più grave di un’influenza, punto di vista che generò diverse reazioni critiche tra i suoi colleghi, tra cui anche quella di Roberto Burioni, dell'Università San Raffaele che definì l’equiparazione del Covid-19 a un’influenza una scemenza di dimensioni gigantesche.

Che cosa è successo da quei giorni in poi, invece, lo sappiamo bene: uno sviluppo crescente e continuo del contagio, dalla Lombardia al Piemonte e l’Emilia, il virus che tocca Marche, Toscana, Liguria, e via via tutta l’Italia, corre in Spagna, Francia, sconvolge l’Europa e mette in allarme gli Stati Uniti. Da epidemia a pandemia. Da locale a globale.

In tutto questo tempo Milano e la Lombardia, pezzo dopo pezzo, si sono fermate, e lo stesso sindaco Sala ha ammesso essere stato un errore quello spot di una sfavillante Milano dai ritmi impensabili e dai risultati importanti. La mascherina del governatore Fontana era a sua volta un ripensamento rispetto a quanto sostenuto qualche giorno prima davanti al Consiglio regionale, dove il virus era stato definito aggressivo nel contagio, ma dagli effetti paragonabili a “poco più di una normale influenza”.

La conflittualità della politica è cosa nota, incorporata, archiviata nelle pratiche di selezione dei contenuti comunicativi. Alla conflittualità politica è ancora di più abituata una città come Milano, che sovente vive di questa coabitazione di giunte comunali e regionali di diverso colore. Esiste anche un'abitudine ai comportamenti cacofonici dell’informazione, sovente troppo adagiata alle proprie fonti a cui fa da cassa di risonanza.

Quello a cui Milano non era abituata è però ottenere risposte incerte dal sapere esperto. Milano è di certo conosciuta per la moda e per il design, per la sua imprenditorialità, ma è anche la città delle sette università che attraggono migliaia di studenti, una città di saperi e di scienza. La città che vuole trasformare uno dei tanti luoghi della sua ultima repentina crescita, appunto quello in cui si è svolto l’Expo, in un campus scientifico. La città del sapere medico, del Niguarda e dell’Ospedale San Raffaele, dell’Istituto europeo oncologico fondato da Umberto Veronesi e dell’Istituto clinico Humanitas. Una città che dalla scienza e dalla medicina è abituata a ricevere risposte.

Da anni gli studi sulla comunicazione si interrogano sui motivi del deterioramento dell’autorevolezza del sapere esperto, sulla sua perdita di centralità e sulla diffusione di conoscenze dall’epistemologia dubbia, quelle che in maniera vaga sono definite fake news. In questo momento la centralità è tornata al sapere esperto e ai dati che produce: medici costantemente intervistati dai media, dati presentati quotidianamente e analizzati con grafici e trend. Eppure quello che la città (e il Paese) ricevono in cambio è incertezza. Chiariamo, il problema non sta in quello che dicono i medici, il problema sta nella forza del virus che resiste alle possibili risposte della scienza.

E dunque, dalla comparsa del paziente uno, tra l’operatività di chi rimane in corsia negli ospedali sovraffollati e l’immobilità di chi rimane a casa, è proprio l’incertezza rispetto agli sviluppi del virus a tenere Milano sospesa in un tempo immobile. Incertezza sull’attendibilità dei tamponi, incertezza sull’andamento del contagio, incertezza sull’arrivo del picco, sui tempi in cui si troveranno dei rimedi. La città che stava fondando la sua nuova svolta nella scommessa sui big data si trova ostaggio dell’incertezza dei dati e del sapere esperto che li produce.

Milano non era equipaggiata per accettare che anche le scienze dure, come vengono definite proprio per contrapporle alla supposta fragilità del sapere costruito dalle scienze sociali, potessero restituire incertezza. La città che nelle pratiche era riuscita a elevare a sapere granitico anche quello di una scienza sociale come l’economia, soprattutto a uno dei suoi mantra più liberisti, la ricchezza produce ricchezza, si trova invece a scoprire la fragilità di un sapere reputato saldo. Si trova a scoprire che la demarcazione tra sapere scientifico condiviso e non condiviso dipende dalle procedure, dai tentativi, dalle intuizioni, dalla sorte, dai conteggi, dai prelievi, dai conti, dall’umana fallacia. Milano è una città che ha costruito ricchezza, brand, creatività, mode sulla certezza dei suoi saperi. Milano è una città abituata a competere e sa che può incappare nella sconfitta. Ma è una città che non avrebbe immaginato di doversi confrontare con un avversario (un nemico, questa volta) che i suoi saperi non sanno né conoscere né misurare.

 

 

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