Questo articolo fa parte dello speciale Viaggio nell'Italia dell'emergenza
In queste settimane ci stiamo rendendo conto un po’ meglio che la cultura è, tra le altre cose, libertà di movimento. È in quell’andare verso qualcosa che si stabilisce il patto culturale con noi stessi e con gli altri, che si incornicia l’esperienza e che si costruisce il percorso che ci fa sentire parte di un progetto di crescita e, in senso molto fisico e letterale, di avanzamento. Non a caso, Parma aveva cominciato il suo cammino di Capitale italiana della cultura 2020 proprio portando in strada l’11 di gennaio oltre 15 mila persone, che avevano passeggiato dal quartiere storico dell’Oltretorrente alla piazza principale affermando prima di tutto la volontà di stare insieme, incontrarsi, parlarsi, avanzare verso un obiettivo. Un anno, questo 2020, che avrebbe fatto della libertà di movimento culturale la strategia sociale ed economica della città e, non di meno, urbanistica, vista la natura profondamente aderente alla conformazione territoriale del nostro dossier di candidatura.
Oggi Parma è chiusa e vuota, come tutte le città italiane. È una sorta di ghost town della cultura 2020 che porta esposti i segni grafici di un anno ancora nella sua primavera, eppure già in punto di morte: le poetiche figure disegnate da Francesco Ciccolella a fissare, nei corpi sospesi della sua arte, le vocazioni culturali della città, il logo progettato e disegnato da Erik Spiekermann a ripensare nell’essenza della grafica il senso duraturo di un’idea, il claim “La cultura batte il tempo”, che sembra oggi beffato, ma al quale invece ci aggrappiamo certi che sapremo tornare alla sua altezza.
Mentre alcuni contenuti, alcune storie, alcune voci migrano online, dove sperimentiamo, immobili, una diversa e illusoria libertà di movimento, dove l’avanzamento non è più fisico e letterale, ma figurato e individuale, un’onda di solidarietà raggiunge Parma 2020. Dall’Anci alle città candidate a Capitale italiana della cultura 2021, dalla rete delle Città d’Arte e Cultura al Coordinamento nazionale degli assessori regionali alla Cultura, fino alle richieste di emendamento al decreto Cura Italia, giunge al Mibact la richiesta di prolungare Parma 2020 al 2021 e non tanto, o non solo, per Parma, ma per restare fedeli al progetto stesso delle Capitali della cultura. E si tratta di nuovo di movimento. Un movimento che consente, ogni anno, a un territorio di proporre la sua idea di cultura, di scambiarla con il Paese, di accogliere, ospitare, andare incontro e favorire la ricucitura di un tessuto sociale, economico e culturale la cui trama rivela a un tempo l’alterità e l’identità della nostra tradizione.
Apertura, crocevia, dialogo, ritmo sono tutti concetti che abbiamo visto innervare i programmi di Mantova 2016, di Pistoia 2017, di Palermo 2018, di Matera 2019 e di Parma 2020 e ognuno di essi implica il muoversi e ci mette di fronte a ciò che oggi non siamo più in condizione di fare: stiamo al chiuso, non possiamo più sostare ai crocevia dove si incontra chi arriva da strade diverse, dialoghiamo stando sempre più lontani, sprofondiamo in un’assenza di ritmo che ci impegniamo a trasformare a sua volta in ritmo.
Non sappiamo ancora se Parma 2020 diventerà Parma 2021, ma sappiamo di aver perso l’eufonia di quella cifra che si ripete – 2020 – e con essa un’idea di cultura non dirò spensierata, ma radicata entro un senso del tempo e della possibilità che va per forza ripensato. Guardarsi negli occhi con il progetto di Capitale italiana della cultura e chiedergli e chiedersi che cosa bisogna fare equivale – da dimensione e prospettiva diversa, certo – a porsi le stesse domande che la politica si sta ponendo in questi mesi, e che provo a riassumere in tre ambiti strettamente interrelati l'uno all’altro: il progetto politico-culturale, la comunicazione, l’economia.
Il progetto politico-culturale di Parma 2020 non si potrà trasferire. Non esiste un post-epidemia in cui sarà possibile ritrovarci, esiste un post-epidemia in cui dovremo ripensarci e questo processo di ripensamento deve per forza iniziare in questi giorni. Siamo sempre convinti che ogni cosa che facciamo possa modificare il nostro intorno, partiamo sempre dall’idea che l’azione politica, sociale, economica, culturale che progettiamo o mettiamo in atto trasformi il dopo. Eppure ci rendiamo conto ora, nella standardizzazione interclassista e interculturale delle frasi fatte, che un tale concetto di trasformazione vive per lo più radicato nell’idea di una regolarità di vita che di fatto gli toglie metà dell’ambizione e che nel contempo, però, ci rassicura, dal momento che cambiare davvero, si sa, spaventa. Niente, dunque, è mai come prima, non ci vuole un virus per capirlo, ma se fino a poche settimane fa pensavamo di poterci comunque ritrovare nelle forme di un cambiamento gestito e prevedibile, di un dopo adagiato sul prima, oggi stiamo cercando di fare i conti con il fatto che ci dovremo ripensare nelle forme di un cambiamento subìto e imprevedibile, di un dopo privato del prima. Il progetto politico-culturale di Parma 2020 dovrà tener conto di questo scenario e accettare una responsabilità che non ci aspettavamo: essere Capitale italiana della cultura insieme al Coronavirus, non al tempo del, né contro. Insieme. Significherà interrogare l’emergenza culturale, la fragilità di un sistema fondato sul contatto fisico e la libertà di movimento e la necessità di farglisi incontro in modi nuovi. Ragionare sul “piccolo”, sul “raccolto”, sulla moltiplicazione dei luoghi, sul ripensamento di un pubblico, sulla relazione tra gli spazi moltiplicati e sulla tenuta di un discorso inatteso che dovrà lavorare sul concetto di “connessione culturale” in maniera meno rapida ed emergenziale di come si sta facendo in queste settimane.
Evidentemente, a questi auspici programmatici dovrà corrispondere un nuovo messaggio e pertanto la comunicazione, nel pieno dell’“infodemia” di questi mesi, rappresenterà un banco di prova decisivo. Come si farà a comunicare Parma 2020 ripensata? Che cosa si potrà tenere del tono di voce che l’ha accompagnata fino a qui e che cosa invece bisognerà cambiare? Anche qui si tratterà di cesellare il messaggio, di adattarlo alle pratiche di “raccoglimento” che caratterizzeranno non solo il nostro agire, ma anche il nostro pensare, di rendere questo messaggio non meno inclusivo, ma più accudente, non meno partecipativo, ma più personale, direi quasi più intimo. Sì, perché oggi non penseremmo più di camminare in 15 mila verso la grande idea di una capitale italiana della cultura, ma forse riusciremmo a ricordare il rumore dei passi di quei 15 mila, le loro voci, i loro canti e a capire che quel tono non è da gettare, che non dobbiamo rinunciarvi, ma dobbiamo farlo crescere, di nuovo, dentro di noi. E per farlo c’è bisogno di messaggi autorevoli, di voci sicure, non omologate e non necessariamente tutte concordi, ma che dicano cose vere e realizzabili e su quelle si confrontino senza altri fini. Ci giochiamo una partita dov’è ancor più chiaro di prima come la comunicazione sia già, nella sua ampiezza, il progetto culturale e politico, non il folklore del consenso.
Infine, last but obviously not least, l’economia. Parma 2020 è fatta di alcuni milioni di euro pubblici e privati, che si incontrano in un progetto in cui l’anima pubblica e quella privata intravedono un disegno per il futuro di un territorio che muove dalla cultura per arrivare a intrecciare tutti i settori del nostro viver comune. Parma 2020 è fatta di investimenti che rendono possibili le azioni culturali, che sostengono la comunicazione e che alimentano una macchina fatta di persone e, mi piace sottolinearlo, di giovani che si stanno costruendo un’esperienza gestionale che li renderà professionalmente e umanamente più consapevoli e forti. Oggi l’economia di Parma 2020 è come immobilizzata, ma al pari del progetto politico-culturale e della comunicazione dovrà raccogliersi intorno a una nuova sfida, riconoscendola come sfida economica nel senso più alto del termine e dovrà investire sulla sua stessa autorevolezza, sul dire, in altra forma, qualcosa che aiuti a comprendere, che guidi, che ispiri comportamenti aderenti alla forma che un po’ dovremo prendere e un po’ dovremo imprimere. Sarà un’economia che dovrà farsi carico di tutte le economie che ruotano attorno a questa sfida culturale e pertanto un’economia che dovrà ripensare la sua relazionalità, la sua responsabilità sociale e inseguire quella libertà di movimento cui non potremo, con le dovute cautele, rinunciare.
Se la nostra ispirazione era quella di costruire un programma che sottolineasse la capacità della vita culturale di farsi piattaforma per la convergenza delle aspirazioni della comunità nazionale e internazionale cui si rivolge, ora siamo messi, nostro malgrado, nelle condizioni di dover per forza convergere verso un desiderio di prossimità umana che torna ad essere ambizione culturale, un desiderio da riprogettare politicamente, da comunicare con responsabilità e da sostenere sviluppando un nuovo senso dell’individuo e di quella collettività cui tutti sentiamo di volerci, appena possibile, riunire.
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