Mio figlio, 7 anni, va in una scuola, qui nelle Valli valdesi, che possiamo dire di bassa montagna. Si potevano fare anche altre scelte di localizzazione. È stata una scelta non solo “ambientale”, ma anche politica, di supporto a una piccola realtà che fa fatica ogni anno a formare una classe di prima. Fanno cose bellissime – didattica nei boschi, molto lavoro manuale – e cantano in classe Se Chanto, il cosiddetto inno nazionale occitano. È la perfetta concretizzazione degli immaginari di molti cittadini rispetto il tipo di scuola che vorrebbero per i loro figli.

Dalla sospensione di Carnevale, Bernard non ha più relazioni collettive con la sua realtà. Arrivano i compiti via mail, qualche video WhatsApp di saluto. Mio figlio sta patendo molto questa condizione. So che è diffusa in buona parte delle aree interne e periferiche, talvolta per problemi di digital divide, sovente per problemi di competenze tecnologiche e didattiche degli insegnanti. Certo, ci sono delle eccezioni. In alcune realtà montane la crisi è stata l’occasione per praticare nuove forme di didattica a distanza, per elaborare riflessioni e sperimentazioni pedagogiche contestuali a questi luoghi.

Per mio figlio, e per molte migliaia di bambini, invece, questa è una grande occasione persa. Non mi interessano i compiti, un mezzo anno di scuola perso. Ma la possibilità di vivere, insieme, un evento di portata storica, che spiazza, che crea paure, ma anche interrogativi e questioni profonde. Essere davvero comunità, quella vera, e non quella idealizzata di un ipotetico bel tempo che fu. Forgiarsi collettivamente, qui e ora. Vorrei che un giorno mio figlio si sentisse a proprio agio in un piccolo borgo montano come in una metropoli globale di decine di milioni di abitanti. Non credo sia impossibile. Ciò che osservo in altre regioni alpine europee, che siano l’Alto Adige o il Vorarlberg, è che si può vivere in un ambiente alpino, apparentemente marginale, stando al centro del mondo e della contemporaneità. Vorrei meno automitologie montanare e meno stereotipi cittadini. Vorrei semplicemente che questa crisi facesse capire l’importanza di garantire diritti di cittadinanza a tutti, come condizione essenziale per creare società, economia, democrazia, progresso.

Nella discrasia tra la scuola in perfetto stile Walden e la sua incapacità in termini tecnologici e di competenze di gestire questa crisi come una chance, c’è metonimicamente molto di quanto sta capitando. Ancora prima del digital divide o della rarefazione territoriale del Welfare, tutti temi ben conosciuti che la crisi semplicemente evidenzia e drammatizza, queste settimane hanno mostrato come manchi, rispetto al caleidoscopio territoriale del nostro Paese, un vero pensiero della compresenza. Nelle folli code agli impianti sciistici, nella fuga verso le seconde case rifugio, nelle ronde dei montanari inferociti contro i cittadini untori, vi è ancora molto di quella contrapposizione tra città e montagne inaugurata da scrittori e filosofi nel Settecento. Da un lato le aree interne come spazio idealizzato e al contempo da sfruttare, luogo delle tradizioni e riserva di natura, dall’altra le città moloch con i loro cittadini corrotti e degenerati. Certo, questa crisi ha messo bene in evidenza – basti pensare all’enorme patrimonio edilizio non solo di seconde case, ma anche di strutture di Welfare in disuso – quale sarebbe potuta essere l’utilità di questi territori in tempi di lockdown, e più in generale come le aree interne potrebbero essere spazio del riabitare, anche intermittente, in un quadro di differenti condizioni di strutturazione dei modelli di vita e di lavoro – e non è solo un tema di smart working.

Prima delle questioni tecnologiche o organizzative, c’è però un decisivo problema culturale e di immaginari. Paradossalmente questo Paese, malgrado il suo incredibile mosaico paesaggistico e ambientale, non ha mai coltivato un’idea di integrazione, o meglio ancora di interdipendenza, tra le sue parti. Classi dirigenti, analisti, élite tecnico-amministrative hanno perseguito – con un’accelerazione in questi ultimi decenni che questa crisi enfatizza – una concezione essenzialmente dicotomica dell’Italia, fatta di contrapposizioni tra aree metropolitane e interne, tra Nord e Sud, tra “centri” e “periferie”.

Pochissime le eccezioni, storie di una possibile altra Italia, come la teorizzazione delle interdipendenze territoriali praticata per la prima volta nel Piano regolatore della Valle d’Aosta di Adriano Olivetti degli anni Trenta. La stessa Terza Italia del Nord-Est, che introduce nella narrazione prevalente il tema dei territori intermedi delle campagne urbanizzate, è più il frutto di un processo spontaneo delle società e dei sistemi produttivi locali – se si esclude forse l’Emilia-Romagna – che di un’azione pianificata. Il libro collettivo Riabitare l’Italia, edito da Donzelli nel 2018, è stato proprio questo: il tentativo di immettere nuove rappresentazioni del Paese, mostrando le potenzialità delle aree interne e la necessità di nuovi quadri interpretativi e politiche.

Molto si è scritto in questi giorni di Covid-19, sovente con toni elegiaci e quasi da wishful thinking, sul fatto che questa crisi imporrà non solo una radicale trasformazione dei modelli economici e organizzativi, ma anche una nuova centralità delle aree interne del Paese. Personalmente non sono molto ottimista, e già la stessa composizione della task force governativa per l’uscita dalla crisi – essenzialmente economisti e qualche sociologo, mentre totale è l'assenza di competenze in grado di spazializzare territorialmente i fenomeni – fa intravedere una volontà di continuare senza soluzione di continuità secondo le linee di quel paradigma tecnico-soluzionista ben descritto recentemente da Evgeny Morozov su "Internazionale".

Proprio intorno a questo nodo vorrei provare a fare due considerazioni. La prima: questa crisi ha evidenziato in modo drammatico quanto la dimensione spaziale-territoriale sia stata espulsa dalle policies per essere ridotta a mero spazio diagrammatico astratto. Una afisicità delle cose che attraversa anche le filosofie dello smart o delle best practices replicabili. Niente quanto le emergenze sanitarie della Lombardia e del Piemonte mostrano l’urgenza di una reimmissione del territorio materico e concreto – fatto di abitanti e insediamenti specifici – dentro il panorama delle politiche. L’astrazione dallo spazio fisico ha permesso quelle azioni di concentrazione (dell’eccellenza), separazione (dal territorio) e specializzazione (funzionale) che negli ultimi decenni sono state la cifra delle trasformazioni delle parti più dinamiche del nostro paese, che si trattasse delle cliniche lombarde o delle superstrade pedemontane. Non è forse un caso che la crisi abbia colpito più duro proprio in quei territori intermedi – come la bergamasca o il lodigiano – che sono stati i principali oggetti delle politiche settoriali, e dove le ricerche iniziano a profilare un rapporto tra mortalità da virus e inquinamento ambientale.

La seconda considerazione è una diretta derivata della prima. Le aree che hanno più possibilità di resistere a crisi come l’odierna sono quelle dove buoni gradi di interdipendenza e di integrazione delle parti, di varietà e multifunzionalità vengono a coniugarsi con specifiche caratteristiche territoriali e ambientali. È evidente come le aree interne abbiamo degli atouts da giocare in questa partita. Ma questo significa ritornare indietro rispetto a quanto per anni è stato detto, con tra l’altro una centralità quasi assoluta conferita al turismo: eccellenze, beni faro, specializzarsi, e via dicendo. Che in fondo non è che l’altra faccia del medesimo paradigma che ha guidato aree metropolitane e territori intermedi. E qui ci ricongiungiamo con quanto detto all’inizio: senza una vera trasformazione culturale e degli immaginari nell’ottica della compresenza e della pluralità, capace di mettere davvero al centro i territori con le loro differenze e specificità, le politiche resteranno nelle mani dei vari soluzionismi tecnici.

 

 

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