Quale fu la forza del neoliberalismo? Perché la sua egemonia si è incrinata, e forse dissolta? Il saggio che Gary Gerstle ha dedicato all’ascesa e alla caduta dell’«ordine politico» neoliberale (The Rise and Fall of the Neoliberal Order: America and the World in the Free Market Era, Oxford University Press, 2022) offre interessanti risposte a queste – e altre – domande. Nel numero della rivista in uscita venerdì lo recensisco, giustapponendolo a una storia economica del «lungo ventesimo secolo» (B. DeLong, Slouching Towards Utopia: An Economic History of the Twentieth Century, Basic Books, 2022). Qui anticipo l’essenziale.

Storico americanista a Cambridge, il suo libro si concentra sugli Stati Uniti e in alcuni passaggi la questione del colore della pelle riveste grande importanza, ma sia la natura degli argomenti impiegati sia l’influenza globale di quella nazione conferiscono alla sua analisi un respiro più ampio.

Per prima cosa, conviene partire dalla nozione di «ordine politico», centrale nell’interpretazione di Gerstle. In sintesi, quella espressione denota «una costellazione di ideologie, indirizzi politici, ed elettorati che plasma la politica statunitense in modi che durano oltre i [suoi] cicli elettorali biennali, quadriennali e sessennali» (p. 2; la traduzione, di questo e degli altri passi citati, è mia).

In quasi cento anni solo due ordini politici sono emersi: quello del New Deal, che durò dagli anni Trenta agli anni Settanta, e quello neoliberale, che nacque mentre il primo si disfaceva e si ruppe nel secondo decennio di questo secolo. Per stabilire un ordine politico, spiega Gerstle, non basta «vincere un’elezione o due»: occorrono «ricchi finanziatori [che] facciano investimenti di lungo termine su candidati promettenti»; think tank capaci di «trasformare le idee politiche in programmi realizzabili»; un partito politico in ascesa «capace di legare stabilmente a sé molteplici segmenti dell’elettorato»; la capacità di «orientare l’opinione sia ai massimi livelli […] sia nella stampa a larga diffusione e nei media immateriali»; e «una visione morale» capace di ispirare gli elettori (p. 2).

Un attributo cruciale degli ordini politici è “la capacità del partito ideologicamente dominante di piegare il partito di opposizione alla propria volontà”

Un attributo cruciale degli ordini politici è «la capacità del partito ideologicamente dominante di piegare il partito di opposizione alla propria volontà» (p. 2). Negli anni Cinquanta un presidente repubblicano (Eisenhower) preservò l’assetto del New Deal, infatti, e quarant’anni dopo un presidente democratico (Clinton) «accettò i principi centrali dell’ordine politico neoliberale» (p. 3). È in questi due passaggi che secondo Gerstle i due ordini politici acquisirono stabilità e affermarono pienamente la propria egemonia. L’acquiescenza di un partito all’ordine politico costruito dall’altro non è mai completa, ma è decisiva:

«il successo di un ordine politico dipende dalla sua capacità di determinare ciò che larghe maggioranze di eletti ed elettori di entrambi i partiti ritengono politicamente possibile e desiderabile. Allo stesso modo, la perdita di questa capacità di esercitare l’egemonia ideologica segna il declino di un ordine politico. In questi momenti di declino, idee e programmi politici che in precedenza erano considerati radicali, eterodossi, inattuabili [o stravaganti] possono muovere dai margini del dibattito pubblico al mainstream. Ciò avvenne negli anni Settanta, quando la disgregazione dell’ordine del New Deal permise a idee neoliberali sino allora disdegnate di radicarsi» (p. 3).

Ma perché l’egemonia della dottrina neoliberale è durata tanto? Un tratto distintivo e fortemente sottolineato nell’analisi di Gerstle è l’enfasi sulla fine della Guerra fredda: «le conseguenza della [dissoluzione dell’Unione sovietica] e della sconfitta dell’ideologia che la legittimava furono immense. Assieme resero possibile il trionfo del neoliberalismo in America e nel mondo» (p. 10) – trionfo che egli colloca appunto negli anni Novanta.

Oltre ad aprire vasti territori vergini al capitalismo e a ridurre lo «spazio ideologico e di immaginazione» dei suoi oppositori, la caduta del socialismo reale rimosse l’imperativo di mantenere quel «compromesso tra capitale e lavoro che era stato fondamentale per l’ordine politico del New Deal» (pp. 149 e 146, rispettivamente). Svanita la minaccia militare, politica e ideologica che il blocco comunista rappresentava, «i capitalisti non avevano più bisogno di assicurarsi contro di ess[a] pagando ai lavoratori americani gli alti salari che l’ordine politico del New Deal richiedeva»: le loro proteste contro la riduzione dei salari potevano essere «ignorate o affrontate con la minaccia di spostare la produzione all’estero» (p. 146).

La dottrina economica neoliberale è sempre più spesso vista come un progetto animato dalle élite occidentali per affermare i propri interessi. La critica a questa lettura è un secondo tratto distintivo dell’analisi di Gerstle. Nel neoliberalismo, egli diffusamente argomenta, c’era anche una promessa di emancipazione che è figlia sia del liberalismo classico, e della sua lotta per la libertà individuale, sia della rivolta della «nuova sinistra» statunitense contro la burocratizzazione della società del New Deal e contro il complesso militare-industriale favorito dalla Guerra fredda. La celebrazione della diversità, della creatività, dell’emancipazione individuale, anche della «spontaneità» – che secondo Hayek è «l’essenza della libertà» (p. 98) – sono tratti fondanti del neoliberalismo, che spiegano sia il sostegno che raccolse anche a sinistra, sia la sua compatibilità con le istanze di liberazione fondate sull’identità di genere, l’orientamento sessuale o il colore della pelle. Senza tenerne conto, conclude Gerstle, è difficile spiegarsi la duratura egemonia del neoliberalismo.

Visto il rilievo che la politica delle identità ha recentemente avuto in Italia è anche utile vedere come egli descriva la traiettoria presa da parte delle sinistre dell’Occidente al «trionfo» del neoliberalismo (pp. 148-149). Se è vero che la dissoluzione dell’Unione sovietica ridusse lo spazio politico delle sinistre, in larga parte del globo il socialismo aveva già «perduto la sua capacità di muovere le masse». Già prima degli anni Novanta molti tentarono di dare al proprio radicalismo «un fondamento diverso da quello marxista»: negli Stati Uniti «si rivolgevano in modo crescente alla identity politics, nella quale potenti nuovi sogni di liberazione – per le donne, le persone di colore, i gay – erano in incubazione».

E sebbene queste lotte generassero conflitti, esse «non minacciavano i regimi dell’accumulazione di capitale come il comunismo aveva fatto»; anzi, il multiculturalismo e il cosmopolitismo fiorirono sotto l’ordine neoliberale. Con la fine del socialismo reale il riorientamento verso questo fascio di temi si rafforzò: «coloro che continuavano a definirsi di sinistra dovettero ridefinire il proprio radicalismo in forme alternative, che si rivelarono essere forme che i sistemi capitalisti» potevano agevolmente gestire. «Fu in questo momento che negli Stati Uniti da movimento politico il neoliberalismo divenne ordine politico».

Non leggerei questa come una condanna della politica delle identità, naturalmente, e non solo perché anche qui Gerstle mantiene la sua neutralità assiologica: conviene giudicare quelle politiche per ciò che esse valgono, e non per la loro congiunzione con altri cambiamenti politici. In questo caso, tuttavia, la distanza tra esse e il conflitto sulla distribuzione del reddito appare particolarmente visibile.

Gerstle si concentra infine sul tramonto dell’egemonia ideologica della dottrina neoliberale. Se infatti l’amministrazione eletta nel 2016 procedette sulla via della deregulation, dello Stato minimo, e della riduzione della pressione fiscale e della sua progressività, seguendo le prescrizioni di quella dottrina, essa invece avversò quattro componenti essenziali dell’ordine neoliberale: l’apertura al cosmopolitismo, al multiculturalismo, all’immigrazione, alla globalizzazione.

La proliferazione di nuove idee, reti, movimenti e media “suggerisce che un nuovo ordine politico progressista stia prendendo forma”, sebbene esso appaia ancora vulnerabile

L’analisi si spinge sino al 2021. Gli elementi «culturali» del neoliberalismo sopravvivono, in parte, «[m]a l’ordine politico neoliberale è rotto» (pp. 292-293). L’attuale amministrazione statunitense sa di trovarsi a «un punto di svolta», sa che l’indirizzo politico «ereditato da Clinton e Obama non basta più», coopera con la sinistra del partito (p. 281). La proliferazione di nuove idee, reti, movimenti e media «suggerisce che un nuovo ordine politico progressista stia prendendo forma», sebbene esso appaia ancora vulnerabile (p. 285).

Segue dunque un avviso, che di nuovo riecheggia Antonio Gramsci. L’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 dimostra «quanto la rottura di un ordine politico possa essere pericolosa»: il nuovo ordine politico, se uno sorgerà, potrebbe invece «venire dalla destra ed essere genuinamente autoritario [e] profondamente illiberale» (p. 289). Voilà une joyeuse perspective!