Si parla molto, e molto si scrive, di asilo, di rifugiati, di politiche di accoglienza e più ancora di non-accoglienza. Al netto delle trappole del senso comune e delle retoriche ostili, quelle che confondono immigrati e rifugiati, parlano di una crescita “esponenziale” dell’immigrazione senza guardare i dati, pensano che l’Italia sia il crocevia delle migrazioni verso l’Europa a causa della sua posizione geografica, anche i discorsi più seri e fondati trattano quasi sempre del fenomeno dall’alto e dall’esterno. Criticano le politiche governative, e ci vuol poco; fanno le pulci al sistema italiano di gestione dell’asilo, anche in questo caso con poca fatica; attaccano l’accoglienza “umanitaria”, che non piace agli intellettuali “impegnati” e ai loro epigoni, ma raramente hanno osservato da vicino e dall’interno la vita dei centri di accoglienza e l’esperienza quotidiana delle persone lì ospitate.

Il libro di Paolo Boccagni da poco pubblicato ha invece il merito e insieme l’originalità di raccontare un’esperienza di osservazione diretta, ravvicinata e prolungata della vita di numerosi richiedenti asilo accolti in una struttura della città di Trento. Il libro è il frutto di quattro anni di visite, due-tre volte la settimana, tra il febbraio 2018 e l’aprile 2022, incontrando centinaia di protagonisti, tra persone accolte, operatori e volontari, e, attraversando la pandemia, i rivolgimenti politici e normativi, i cambi di gestione, gli ingressi e le uscite dei profughi dalla struttura. Si tratta quindi, tecnicamente, di un lavoro etnografico di grande impegno. Direi anzi esemplare sotto il profilo metodologico.

Spesso i ricercatori parlano di “etnografia” con una certa leggerezza, sulla base di brevi visite o di qualche intervista. A volte si appellano al metodo etnografico per evitare di fornire dettagli su come hanno condotto la ricerca e presentare la loro visione della questione come empiricamente fondata. In questo caso, invece, Paolo Boccagni ha trascorso un numero elevatissimo di ore di osservazione partecipante sul campo, distribuite nell’arco di più anni, dando conto anche delle trasformazioni del contesto, del progressivo deterioramento della struttura, delle ripercussioni dei tempi lunghi dell’attesa di una risposta non solo sul morale delle persone accolte, ma anche su operatori e volontari. L’autore, professore di Sociologia nell’Università di Trento, non è ancora molto conosciuto in Italia (lo è molto di più all'estero, dove è anche molto citato e invitato), ma conferma di essere una delle voci più qualificate degli studi sulle migrazioni internazionali nel nostro Paese.

Il libro è una diramazione di un vasto programma di ricerca sulla concezione e la pratica del “fare casa” tra gli immigrati, per i quali Boccagni è un autore di riferimento a livello internazionale. L’apparente semplicità e immediatezza dell’esposizione ha dunque alle spalle un retroterra teorico ed empirico di notevole spessore: l’operazione condotta, da questo punto di vista, è consistita nel tradurre le riflessioni sui molteplici significati della “casa” per gli immigrati, tra nostalgie, aspirazioni, situazioni concrete e difficoltà sperimentate, nell’analisi di una popolazione in transito come quella dei richiedenti asilo. La casa per loro consiste in un contesto abitativo esplicitamente progettato come provvisorio, ma destinato comunque a rappresentare per anni il luogo della vita quotidiana e a generare processi di adattamento dello spazio, di negoziazione del suo utilizzo, di invenzione di pratiche di riappropriazione. L’autore, volutamente, non ha dato un taglio accademico al suo lavoro, ma ha scelto di rivolgersi a un pubblico più ampio, rinunciando quasi del tutto ai riferimenti bibliografici e adottando uno stile di scrittura narrativo, in prima persona, scorrevole, partecipe, accattivante. Il libro pertanto ha anche il raro pregio di essere eccezionalmente ben scritto, capace di combinare profondità di analisi, agilità nell’esposizione, piacere nella lettura.

Il filo conduttore del lavoro è rappresentato dagli spazi del centro, dalla portineria, all’ufficio degli operatori, alle camere che ospitano le persone accolte e nelle quali prendono forma le loro esistenze sospese

Il filo conduttore del lavoro è rappresentato dagli spazi del centro, dalla portineria, all’ufficio degli operatori, alle camere che ospitano le persone accolte. Nelle stanze prende forma l’esistenza sospesa delle persone, di cui Boccagni evita volutamente di raccontare le origini e la storia, per concentrarsi sulla loro quotidianità: come vivono lo spazio loro assegnato, come interagiscono con gli operatori e con gli altri ospiti, come si misurano con le regole della convivenza, come gestiscono il molto tempo vuoto a cui sono costretti, come socializzano, come cercano eventualmente di trovare qualche occasione di lavoro, di mandare soldi a casa, di migliorare la loro condizione. O altre volte, come si ripiegano su sé stessi, e apparentemente si lasciano andare.

Illuminanti sono, tra i tanti, i passaggi dedicati agli spazi comuni e in modo particolare al cortile, alla ricerca dei coni d’ombra rispetto alla sorveglianza delle telecamere, ai punti che consentono entrate e uscite non autorizzate, alla negoziazione con operatori e responsabili delle forme di visibilità e invisibilità. Come osserva a un certo punto l’autore, “si parte dall’ospitalità e dalle sue contraddizioni, perfino in una non-casa come il centro, per tessere relazioni e costruire il futuro. Sapendo bene che la differenza tra la casa-rifugio, la casa-parcheggio e la casa-prigione, se e quando c’è, è sottile”.

Con uno sguardo non giudicante, scevro da prese di posizione politica esplicite, spesso autoironico, Boccagni fa riflettere sul fatto che i richiedenti asilo sono considerati adulti per alcuni aspetti, e incitati a comportarsi da adulti nel conformarsi a regole e percorsi prestabiliti, dalla pulizia degli spazi alla frequentazione dei corsi d’italiano, dalla gestione dei rifiuti alla ricerca del lavoro, e infantilizzati per altri, come l’obbligo di rientrare al centro la sera o di non consumare alcolici. Dei giovani accolti, tutti maschi e quasi sempre africani, scruta e registra con sincera partecipazione i sentimenti, che alternano speranza, ripiegamento, delusione, frustrazione, rabbia, e spesso si domanda come reagirebbe se fosse al loro posto, ma senza alcuna pretesa di fornire insegnamenti o raccomandazioni.

Nelle pagine conclusive si insiste sul “bisogno di fare casa”, sull’aspirazione a poter finalmente condurre una vita normale, semplice, fatta di famiglia, figli, lavoro

Nelle pagine conclusive si insiste sul “bisogno di fare casa”, sull’aspirazione a poter finalmente condurre una vita normale, semplice, fatta di famiglia, figli, lavoro. Si tratta di un testo certamente atipico, che fuoriesce dai canoni della saggistica accademica paludata, ma anche per questo è un lavoro molto originale, acuto, ricco di sensibilità, equilibrato e nello stesso tempo di notevole impatto.

Boccagni ha trovato un'angolatura inedita e inusuale per parlare dell'accoglienza dei richiedenti asilo e per invitare i lettori a riflettere sulla vita quotidiana delle persone in accoglienza, sul logorio dell’attesa, dell’incertezza, dell’impossibilità di sviluppare progetti, della condanna all’inazione. Non è forse destinato a diventare un libro di testo, almeno non in senso convenzionale, ma dovrebbe essere letto da operatori, educatori, assistenti sociali, da quanti pensano a un lavoro con i rifugiati. E probabilmente non solo da loro.