Lo scorso 8 giugno, i Paesi membri della Unione europea hanno raggiunto un accordo sulla Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione (Ramm) e sulla Proposta modificata di regolamento sulla procedure di protezione internazionale (Apr). Si tratta forse delle due più importanti proposte di riforma avanzate dalla Commissione in materia di migrazioni e asilo in questa legislatura, una delle quali porterebbe all’abrogazione dell’attuale Regolamento 604/2013, il famigerato “sistema Dublino”, che stabilisce i criteri per la determinazione del Paese responsabile all’esame delle domande d’asilo.

L’accordo, raggiunto sotto la presidenza di turno svedese, apre alle difficili negoziazioni con il Parlamento europeo, che aveva a sua volta definito la sua posizione ufficiale lo scorso aprile. La speranza è di riuscire ad approvare le due proposte di regolamento entro la chiusura della legislatura. Con le elezioni del prossimo Parlamento Ue previste per giugno 2024, non si tratta di un’impresa facile anche se l’aver raggiunto un’intesa tra Paesi membri sulla delicata questione della riforma del “sistema Dublino” ha indotto qualcuno a parlare di momento storico.

Le negoziazioni sono state lunghe e complesse. In particolare, queste due proposte toccano in maniera diretta la questione del corretto bilanciamento tra solidarietà e responsabilità su cui ogni possibilità di raggiungere una intesa è sembrata in passato naufragare.

Se ci limitiamo a giudicare sulla base della storia dei tentativi di riformare il “sistema Dublino”, l’accordo raggiunto sul Ramm è senza dubbio inedito. È la prima volta che i Paesi membri, seppure a maggioranza, raggiungono una intesa sull’istituzione di un meccanismo obbligatorio di solidarietà che dovrebbe alleviare il peso della responsabilità sopportata dai Paesi membri più esposti a “pressione migratoria”, per usare il lessico della proposta di regolamento. Il meccanismo è presentato come una soluzione equilibrata che, pur imponendo degli obblighi, lascia comunque liberi i Paesi membri di scegliere come manifestare la loro solidarietà. Ciò può essere fatto accettando ricollocamenti di richiedenti asilo sul proprio territorio, offrendo contributi finanziari o supporto tecnico.

Nessuno sarà obbligato a ricollocare migrati sul suo territorio, anche se si definisce un target europeo di almeno 30 mila ricollocamenti all’anno e di 600 milioni di contributi finanziari diretti. La procedura che regola il meccanismo di solidarietà resta tuttavia estremamente complessa, se possibile ancora più che nella proposta originaria della Commissione. Difficile immaginare di descriverla in dettaglio in questa sede. Un aspetto interessante che merita tuttavia di essere sottolineato è relativo alla logica di “condizionalità” che ispira tutto il meccanismo. I Paesi membri possono infatti rifiutarsi di offrire solidarietà a quei Paesi il cui sistema d’asilo presenti limiti strutturali tali da compromettere una efficace attuazione delle regole europee sull’attribuzione della responsabilità, ad esempio lasciando compiere “movimenti secondari” ai richiedenti.

A fronte della creazione di un meccanismo di solidarietà estremamente complesso, le responsabilità dei Paesi di primo ingresso saranno notevolmente amplificate

A fronte della creazione di un siffatto meccanismo di solidarietà, come accennato estremamente complesso, flessibile e condizionato, le responsabilità dei Paesi di primo ingresso saranno tuttavia notevolmente amplificate. L’aspetto più visibile è naturalmente quello relativo ai criteri di attribuzione della responsabilità in materia d’asilo, che il Ramm non modifica, lasciando intatta anche la loro gerarchia. Ma il diavolo si sa è nei dettagli. Aspetti apparentemente secondari come la durata dell’attribuzione di responsabilità o le procedure di “ripresa in carico” incideranno molto sul carico di responsabilità che ciascun Paese dovrà sopportare. Banalmente, questo significa che i Paesi di primo ingresso saranno tenuti a riprendere in carico i richiedenti asilo che si siano spostati verso un altro Paese Ue fino a due anni dopo dal momento del primo ingresso (oggi la responsabilità cessa dopo 12 mesi), secondo procedure estremamente rapide e semplificate.

Ad accrescere le responsabilità dei Paesi di primo ingresso non è tuttavia solo il Ramm, ma in grande misura anche la proposta emendata sulle procedure, che implica un complessivo ripensamento del modo in cui vengono gestite la prima accoglienza e la procedura d’asilo dei migranti giunti in maniera non autorizzata sul territorio Ue. Il nodo centrale, su cui si è concentrata la negoziazione in Consiglio, è l’obbligo di ricorrere alle cosiddette “procedure d’asilo di frontiera” per tutti i richiedenti asilo di una nazionalità con un tasso di riconoscimento della protezione internazionale inferiore al 20%. Non solo l’accordo raggiunto in Consiglio prevede che non siano esenti dalla procedura di frontiera nemmeno i minori o altre categorie di richiedenti vulnerabili, ma il testo licenziato mantiene la controversa “finzione del non ingresso”. Vale a dire l’obbligo di considerare i migranti assoggettati a tali procedure come non ancora ammessi all’ingresso sul territorio Ue e, dunque, di trattenerli nei pressi dei luoghi di frontiera, verosimilmente in condizioni molto simili alla detenzione.

L’accordo prevede l’obbligo di trattenere i migranti, inclusi i minori, nei pressi dei luoghi di frontiera, verosimilmente in condizioni molto simili alla detenzione

Per la verità si concede anche la possibilità di limitarsi a obbligare i richiedenti a risiedere in una determinata località, purché sia nei pressi delle zone di frontiera o di transito. Tuttavia, questo non significa che le persone assoggettate a tale obbligo di dimora siano da considerarsi come autorizzate all’ingresso nel territorio Ue (si veda l’art. 41f, Apr). Secondo una logica che per certi versi richiama le famigerate “migration zones” australiane, si realizza una escissione di porzioni del territorio dallo spazio della giurisdizione statale, consentendo di considerare tali aree come extraterritoriali ai fini della normativa sull’immigrazione e l’asilo.

I richiedenti asilo assoggettati alla procedura di frontiera la cui domanda sia rigettata devono inoltre essere rimpatriati direttamente dalla frontiera, sempre senza essere autorizzati a fare ingresso sul territorio Ue. Tenuto conto che la procedura d’asilo di frontiera deve essere conclusa entro 12 settimane, estendibili a 16, e che gli Stati hanno poi altre 12 settimane per concludere la susseguente procedura di rimpatrio di frontiera, questo significa la possibilità di trattenere in una condizione di detenzione di fatto i migranti assoggettati alle procedure di frontiera fino a un massimo di sette mesi.

L’impatto economico e territoriale di un simile modello di gestione degli arrivi è difficile da calcolare. Stime fatte in un rapporto pubblicato dal Servizio studi e ricerche del Parlamento Ue immaginano che i Paesi di primo ingresso più esposti ai flussi migratori indesiderati dovranno predisporre nei pressi dei luoghi di frontiera una sorta di arcipelago carcerario in grado di ospitare per mesi diverse decine di migliaia di persone. Uno scenario di questo tipo non farebbe dell’Italia il “centro di raccolta” d’Europa, come paventato dal ministro Piantedosi, ma il campo di concentramento d’Europa.

Non è un caso se uno dei punti più difficili delle negoziazioni sul pacchetto di riforme proposto dalla Commissione sia stato proprio quello relativo all’obbligatorietà delle procedure di frontiera. L’accordo è stato infine raggiunto introducendo un complicato meccanismo procedurale che consente ai Paesi membri di sospendere l’applicazione delle procedure di frontiera, ammettendo dunque i richiedenti asilo sul loro territorio, quando viene superata una certa soglia quantitativa definita a livello europeo per ciascun Paese membro, ciò che la proposta definisce “capacità adeguata”.

Si stima che i Paesi di primo ingresso più esposti dovranno predisporre una sorta di arcipelago carcerario in grado di ospitare per mesi diverse decine di migliaia di persone

Il problema di tale escamotage tecnico-procedurale risiede tuttavia nel fatto che la formula per stabilire quale sia la “capacità adeguata” che ciascun Paese deve mettere in campo tiene conto del numero di arrivi non autorizzati, inclusi gli sbarchi a seguito di operazioni di ricerca e soccorso, e di provvedimenti di respingimento alla frontiera adottati. Ciò crea un potente incentivo a ostacolare in ogni modo gli arrivi, incluse le operazioni di ricerca e soccorso, dato che riducendo il numero degli sbarchi l’Italia potrebbe ad esempio agevolmente alleggerire il peso delle responsabilità che derivano dall’obbligo di applicare le procedure di frontiera.

L’altra strategia per evitare di farsi carico delle responsabilità che Apr e Ramm implicano potrebbe essere quella di accelerare le procedure di rimpatrio, che rappresentano notoriamente il tallone d’Achille della politica migratoria dei principali Paesi di destinazione. Va letto ad esempio in quest’ottica il tentativo fatto dall’Italia di allargare la nozione di “Paese terzo sicuro” inclusa nell’Apr in modo da poter rimpatriare verso i Paesi di transito tutti i migranti che abbiano con quel Paese un “legame significativo”. La proposta del Consiglio lascia alla discrezionalità dello Stato membro la possibilità di definire cosa rappresenti un “legame significativo”: l’Italia potrebbe dunque decidere che anche solo aver risieduto per un periodo di tempo in un dato Paese di transito considerato sicuro, per esempio la Tunisia, costituisca una base per legittimare il respingimento verso quel Paese anche dei cittadini di Paesi terzi.

In definitiva, l’impressione è che i Paesi frontalieri più esposti ai flussi migratori indesiderati abbiano pagato a caro prezzo le modeste concessioni fatte sul piano delle misure di solidarietà. A fronte di un meccanismo di solidarietà estremamente complesso, flessibile e fortemente condizionato, l’approvazione di Ramm e Apr amplificherebbe notevolmente le responsabilità che questi Paesi saranno costretti assumersi. Se fino ad oggi gli squilibri del “sistema Dublino” sono stati sostanzialmente compensati da una parziale disapplicazione delle sue regole, che creava un meccanismo di solidarietà di fatto, in futuro Paesi come l’Italia o la Grecia avranno quale unica strategia quella di tentare di esternalizzare il peso di tali responsabilità, convincendo i Paesi terzi vicini a farsi carico degli oneri relativi al controllo dei flussi migratori.

Se i costi economici e diplomatici della solidarietà europea saranno soprattutto pagati dai Paesi frontalieri, i suoi enormi costi umani saranno tuttavia sopportati da migranti e richiedenti asilo.