A fine maggio papa Francesco ha pubblicato la nuova Costituzione dello Stato della Città del Vaticano. Strumento solitamente decorativo, steso da una mano che ha voluto ridurre ancora un poco le funzioni della segreteria di Stato, esso ha iscritto nel preambolo una tesi singolare sul piano istituzionale. La Costituzione infatti si apre dicendo che il papa è “chiamato a esercitare in forza del munus petrino poteri sovrani anche sullo Stato della Città del Vaticano”. Quella che potrebbe sembrare una spiritualizzazione, coerente con l’azione riformatrice che segna il pontificato di Bergoglio, ha invece un risvolto opaco. Nessuno aveva saputo dire a maggio su cosa basare quella “vocazione” temporale del papa aggiuntiva rispetto a quella di pastore della Chiesa universale. Infatti nemmeno i più tenaci difensori del potere temporale hanno mai sostenuto che esso sia stato conferito a Pietro omogeneo al primato e alla infallibilità perimetrati dal concilio Vaticano I. Nessuno è riuscito a capire chi sia stato il canonista spericolato che ha portato alla firma del papa, con una formula – che Francesco definirebbe “ideologica” – che va oltre la figura stessa del papa-re, nella quale c’era almeno un trattino…

Nessuno ha capito neppure il perché di quella tesi quanto meno audace, fino al momento in cui il prof. Diddi ha pronunciato la sua requisitoria contro il card. Becciu nel quale l’ex sostituto s’è trovato imputato non davanti al papa, ma davanti a un tribunale dello Stato Vaticano, sia per un acquisto immobiliare gestito da sottoposti che chiedevano e ricevevano “doni” e favori per facilitare investimenti non sempre oculati, sia per una serie di donazioni a opere di carità nelle quali era impegnato il parentado sardo del titolare dell’ufficio più incisivo della Curia romana. Alla requisitoria di Diddi risponderanno gli avvocati di Becciu in queste settimane, in attesa di una sentenza che verrà – dicono – prima di Natale: e non è detto che a loro convenga rilevare che il promotore di giustizia (il pm nella giustizia vaticana) ha usato verso l’ex sostituto toni la cui aggressività eccedeva i fatti da lui stesso esposti.

L’esame del processo verte su un danno fatto al tesoro della Chiesa da un immobile a Londra comperato e liquidato in breve tempo. La colpa e l’entità del danno variano a seconda della spanna temporale in cui si inquadra quell’affare venduto da mercanti senza scrupoli a un prezzo troppo alto e il cui valore avrebbe forse potuto essere recuperato in un tempo più lungo. Se è noto che ci sono stati alcuni funzionari curiali di secondo che prendevano tangenti per guidare gli investimenti dei fondi giacenti, nessuno ha mai nemmeno adombrato che l’ex sostituto oggi in disgrazia o il sostituto in carica coinvolti nell’acquisto e nella vendita si siano presi per sé un euro del prezzo pagato o incassato. Nemmeno il prof. Diddi, che però indossando da novizio i panni dell’accusatore, più che evocare fatti comprovati, ha indicato Becciu come un farabutto che, senza avere un perché, voleva ingannare Francesco.

Il promotore di giustizia Diddi non parla a nome del papa in quanto pastore della Chiesa universale, ma a nome del capo di Stato della Città del Vaticano

Non sembri ozioso chiedersi nel nome di chi il prof. Diddi abbia usato argomenti di una violenza insolita perfino in una istituzione i cui tribunali hanno spesso usato (come ha detto Francesco) metodi “immorali” – come quelli con cui fra il 1557 e il 1559 papa Paolo IV Carafa inquisì, arrestò, chiuse a Castel Sant’Angelo e mandò sotto processo il card. Giovanni Morone, correggendo le norme a suo sfavore, senza poterne impedire la riabilitazione a opera del successore.

Su tale domanda – “nel nome di chi?” – si gioca, infatti, non un processo, ma un’ecclesiologia. Il promotore di giustizia Diddi infatti non parla a nome del papa in quanto pastore della Chiesa universale (quello aveva il diritto-dovere di giudicare da sé un cardinale), ma a nome del capo di Stato della Città del Vaticano.

Infatti il papa, al di là di una caricatura massimalista purtroppo diffusa, ha una potestà “ordinaria, suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa” (can. 331), ma non un potere “assoluto”. Perché, osservava il compianto Giuseppe Dalla Torre, il papa è soggetto alla “supremazia del diritto divino naturale e positivo”. “Giudice supremo in tutto l’orbe cattolico” (can. 1442), il pontefice non giudica con i poteri di un capo di Stato ai quali ha rinunciato; tanto meno con i poteri di un tiranno che prima condanna e poi grazia l’innocente. Il papa giudica secondo quella giustizia sostanziale del pastore della Chiesa universale. Al punto che perfino il card. Becciu, al quale papa Francesco ha tolto il diritto di essere giudicato da lui, può fare appello al romano pontefice ai sensi del can. 1417 (“in forza del primato del Romano Pontefice, qualunque fedele è libero di deferire al giudizio della Santa Sede la propria causa, sia contenziosa sia penale, in qualsiasi grado di giudizio e in qualunque stadio della lite, oppure d'introdurla avanti alla medesima”); si badi non una richiesta di grazia, che gli tolga la pena e gli lasci l’onta; ma per un vero giudizio, che il papa può rifiutarsi di pronunciare, ma non può rifiutarsi di ricevere.

Il papa, al di là di una caricatura massimalista purtroppo diffusa, ha una potestà “ordinaria, suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa”, ma non un potere “assoluto”

La mano che ha inserito il munus petrino nella Costituzione della Città del Vaticano che, come si diceva in apertura, è stata rivista nel maggio 2023, aveva dunque uno scopo preventivo e/o ha un effetto su un processo le cui regole sono state cambiate in corso d’opera: creare cioè le condizioni per cui il giudizio del presidente Pignatone possa essere assimilato a quello di una autorità delegata del “giudice supremo”; e dunque – se il giudizio di Pignatone può essere assimilato a quello emesso da una autorità delegata al posto del papa – questo esoneri il pontefice dalle conseguenze di un processo dal quale, comunque vada, la Chiesa non uscirà più umile, ma più umiliata.

Qualunque sia l’atteggiamento personale del card. Becciu, se egli verrà condannato non si potrà non rilevare la serie di aporie procedurali e sostanziali, con un danno per la reputazione della Suprema Autorità; se l’ex porporato verrà invece assolto, non ci si potrà non chiedere perché la stessa Autorità non abbia proceduto secondo i canoni – con tutta la severità che essi conoscono – anziché ricreare una mini-giustizia temporale, le cui contraddizioni sarebbero emerse anche se non si fosse scelto come titolare dell’accusa un giurista che era stato difensore di un imputato nel processo Mafia Capitale e come presidente del tribunale il magistrato che allora impersonava la pubblica accusa.