“Possiamo considerare una vera conquista il fatto che il valore del realismo, del pragmatismo, del senso della complessità, dei dubbi sull’esistenza di soluzione semplici ai problemi politici, economici e sociali sia in rialzo presso l’opinione pubblica di tutte le società occidentali”. [Raymond Boudon]

Ancora una volta, all’inizio di questo nuovo anno, i riflettori della cronaca si sono accesi sull’Ilva, tra debiti impressionanti, multinazionali straniere che se ne vogliono andare, il governo che cerca di trattenerle mettendo sul tavolo centinaia di milioni a fondo perduto, il sindacato che protesta, gli ambientalisti che insorgono, la produzione al minimo, i quasi 11 mila dipendenti e tutti i loro colleghi dell’indotto che stringono la cinghia assieme alle loro famiglie. Poco più di un mese fa, è uscito in un centinaio di sale un film, opera prima di Michele Riondino, dedicato proprio a uno dei tanti casi giudiziari che hanno investito l’acciaieria di Taranto, Palazzina LAF, di cui vale la pena indagare lo “schema ideologico” a partire da due premesse. La prima riguarda i fatti che la pellicola, in quanto film storico ambientato nel 1997, racconta: non c’è dubbio, infatti, che il caso della Palazzina dell’Ilva in cui venivano “segregati” gli impiegati che non accondiscendevano alle proposte dell’azienda sia un caso conclamato di mobbing, una odiosa violazione dei diritti dei lavoratori, sancita anche dalla sentenza emessa dal Tribunale di Taranto nel 2002 (poi confermata in appello), che ha condannato l’allora proprietario Emilio Riva e una decina di manager dell’azienda. Secondo punto da sottolineare è che il film di Riondino è tecnicamente, nell’insieme, un bel film. Ben diretto, ben scritto, ben recitato, con un alto livello professionale da parte di tutti i responsabili dei comparti creativi (fotografia, musica, montaggio, costumi, eccetera) e capace di raccontare una storia che offre un notevole grado di complessità. Il problema è che questo risultato si deve alla bravura degli autori (nello specifico, in particolare, il regista e protagonista Michele Riondino, lo sceneggiatore Maurizio Braucci e lo scrittore e documentarista prematuramente scomparso Alessandro Leogrande) che ha consentito loro di comporre un quadro articolato e ricco di sfumature, nonostante le loro intenzioni.

Basta infatti ascoltare una qualsiasi delle numerose interviste di Riondino (qui una fra tante) per capire quale sia lo schema al quale si desiderava aderire. Un teorema, per così dire, ipersemplificato, che suggerisce un collegamento fra i fatti narrati dal film e la contemporaneità in “una scelta politica sbagliata”, ovvero l’abolizione dell’Articolo 18 (il riferimento implicito è ovviamente il cosiddetto Jobs Act del governo Renzi) da cui sarebbe derivato uno stato di precarietà diffusa. Retroattivamente, dunque, la catena logica porterebbe ad attribuire la responsabilità di quanto accaduto ai padroni (i Riva) e ai loro kapò, impersonificati dal manager interpretato da Elio Germano, il personaggio più volutamente sgradevole e dunque monodimensionale del film, il quale corrompe un operaio ignorante e semiritardato (Caterino Lamanna, interpretato dallo stesso Riondino) e lo induce a fare la spia all’interno della famigerata Palazzina. Lo scopo sarebbe stato quello di aggirare appunto l’Articolo 18 e indurre impiegati virtuosi ad accettare il licenziamento o il ridimensionamento, nell’obiettivo di affermare quella precarietà nel lavoro che andrebbe a tutto vantaggio del capitale e a discapito dei diritti dei lavoratori.

Bene, è chiaro che ci sono delle convergenze di interessi che possono portare a trovare delle ragioni in questo assunto di partenza, ma già nelle pagine di Leogrande, e di conseguenza anche nel film, le cose finiscono per emergere in tutta la loro contorta complessità. Nelle pagine di Fumo sulla città, dedicate al caso Ilva, lo scrittore tarantino ricostruisce le vicende delle acciaierie a partire dalla nascita dell’Italsider e arriva a definire il sistema che si era andato costruendo a partire dagli anni Sessanta in questi termini:

“una microeconomia totalmente statalista, con tutte le conseguenze: la perdita di una dimensione reale dello scambio, l’assunzione di ritmi dopati, la burocratizzazione interna e, soprattutto, una mancata interazione con il territorio. Con il passare del tempo si è cercato di recuperare scampoli di mercato, ma è stato praticamente impossibile. Si è capito che le premesse iniziali erano davvero innaturali, che niente si sarebbe potuto contro una monocultura così estesa. Nonostante questo si è andati avanti verso l’agonia, perché troppi erano gli interessi in gioco, troppe le connivenze, troppo l’impulso a continuare nello stesso modo, finché fosse durata”.

E la base della connivenza politica viene sintetizzata sempre da Leogrande con questa sentenza: “così girano i soldi e ci sono posti di lavoro”. Ancora, sempre nel libro citato, si trova un resoconto di rara onestà intellettuale dell’inchiesta condotta dallo scrittore per un’emittente locale, in cui emergono le sofferenze dei reclusi nella Palazzina ma anche le mille perplessità espresse dai loro colleghi, specialmente i più giovani, concentrati sulla necessità di far funzionare l’azienda in quanto asset fondamentale per la tenuta economica del sistema territoriale.

Ora, in molti hanno scomodato antecedenti illustri, specialmente per definire la scomodità del personaggio di Lamanna – che nonostante la sua posizione di infima categoria è totalmente depoliticizzato e complice del padronato – richiamando le tendenze anarcoidi del Mimì Metallurgico della Wertmuller o le pulsioni reazionarie del Lulù Massa descritto da Petri e Pirro in La classe operaia va in paradiso. Ma, tralasciando le ovvie differenze legate anche alla distanza contestuale, la cosa più interessante da osservare è che il tono che il film pare voler assumere è quello del film politico “di denuncia”, alla maniera del Neorealismo, cioè di quel cinema col dito puntato che, secondo Carlo Emilio Gadda, aveva il difetto di essere “asseverativo, che sbandisce a priori le meravigliose contraddizioni di ogni umana condizione”, fino a dimostrare un “umore tetro e dispettoso come di chi rivendichi qualcosa da qualcheduno e attenda giustizia”.

Il punto è che da allora molta acqua è passata sotto i ponti cinematografici e molta di questa acqua ha proprio a che fare con la demistificazione dell’etica del lavoro nella società del benessere. La commedia all’italiana, probabilmente, nasce il giorno in cui Federico Fellini, che pure era stato uno degli inventori del Neorealismo durante gli anni di apprendistato con Rossellini e Amidei, fa fermare l’auto di Alberto Sordi che ha appena apostrofato un gruppo di operai con la celebre pernacchia associata al richiamo “Lavoratori…” e al gesto dell’ombrello (I vitelloni). E non è un caso che il film con cui il filone si apre ufficialmente, I soliti ignoti, si concluda con il vecchio Capannelle che richiama disperato il giovane Gasmann, appena risucchiato in un cantiere, col celebre monito: “Mo’ dove vai? Ma lì ti fanno lavorare!”.

Proprio nell’anno in cui nasce l’Ilva come la conosciamo, ovvero l’Italsider (il 1961) esce anche il capolavoro di Ermanno Olmi, Il posto , dove il protagonista viene assunto in esubero strutturale in una grande azienda parastatale milanese e passa i primi sei mesi seduto davanti a una parete, a fissare il muro. E giustamente c’è chi, come Paola Casella (Mymovies), ha trovato più di un’assonanza fra il comportamento dei lavoratori all’interno della palazzina e quello dei vari Fantozzi, Filini e Carboni nella saga ideata da Paolo Villaggio e diretta da quel Luciano Salce che al mondo della fabbrica aveva dedicato un grande film misconosciuto, intitolato Il sindacalista e interpretato da Lando Buzzanca. Last but not least, dalla stessa Puglia, nel 2016, arrivava il film italiano più visto di sempre, Quo vado? di Luca Medici (alias Checco Zalone) e Gennaro Nunziante. Il film, dopotutto, racconta la storia di un tipico impiegato del Meridione che, fin da bambino, ha come obiettivo nella vita “il posto fisso”, resiste eroicamente a ogni tentativo di mobbing da parte della sua superiore e – solo dopo un’immersione nello stile di vita e di pensiero del più profondo Nord (le Isole Fær Øer…) – decide di rinunciarvi, accettando di allinearsi a quelle che Fredric Jameson avrebbe definito le logiche culturali del tardo capitalismo.

Tutto questo per arrivare a dire che, fortunatamente, le regole della narrazione cinematografica che si sono stratificate nel corso del tempo hanno obbligato Riondino e Braucci a realizzare un film che, in fondo, introietta la complessità descritta da Leogrande e fuoriesce dallo schema elementare da cui prendeva le mosse. Senza minimamente voler ridimensionare il perverso comportamento dei vertici dell’azienda, quello che è accaduto fra il 1997 e gli anni successivi all’Ilva non è che il prodotto della contorta relazione che si è instaurata fra potere politico interessato al consenso, i cittadini che quel consenso attribuiscono a chi garantisce posti di lavoro “sporchi, maledetti e subito” per sé e le proprie famiglie (meglio se fissi e a basso contenuto lavorativo) e un capitalismo familista e paternalista, abituato assai più ad agganciarsi all’assistenzialismo che alla competizione di mercato (selezionato per quello, verrebbe da dire). Come nel recente Il capo perfetto di Fernando Leòn de Aranoa, un certo mondo della fabbrica emerge anche dal film di Riondino come una bolla anacronistica e soffocante, dove i peggiori istinti di chi sta al vertice sono in effetti sollecitati dall’alleanza implicita con la maggioranza dei sottoposti. La reclusione nella palazzina, infatti, che tanto umiliante e dannosa suona per gli impiegati di livello, viene vissuta dall’operaio come una rilassante vacanza dalla brutale e alienante fatica quotidiana, e la strenua difesa di uno status quo che assicura a Taranto tot posti (fissi) di lavoro e tot aiuti di Stato è una delle condizioni che hanno indotto gli apparati dello Stato a chiudere anche due occhi sull’impatto ambientale di una fabbrica strutturalmente al di sotto di ogni standard europeo. Non si tratta di deflettere dalla tensione dell’impegno e della denuncia, ma di applicarla, anziché alla solita contrapposizione fra buoni e cattivi (ovvero fra capitalisti sfruttatori e dipendenti sfruttati), al circuito delle relazioni perverse che si vanno plasmando quando si entra nella logica di “una microeconomia totalmente statalista” che resiste a ogni tentativo si privatizzazione, specialmente quando è il prodotto di una negoziazione interamente sponsorizzata dallo Stato stesso.

Insomma, con buona pace del tono tragico neorealista, Palazzina LAF costituisce in effetti un ottimo esempio di recupero della dimensione tragicomica della migliore commedia all’italiana. E, sebbene non sia affatto certo che Braucci e Riondino ne sarebbero davvero contenti, si tratta di un sentito e sincero complimento.