In una situazione internazionale in cui sembra prevalere ogni giorno di più il ricorso alla violenza per difendere quelli che ciascuno considera i propri interessi, vale la pena chiedersi se alcuni fatti o indizi ci dicono che si sono perse, o si stanno perdendo, occasioni preziose per dare spazio al dialogo, a causa di un frettoloso rifiuto o a un abbandono della diplomazia, consentendo gli orrendi sviluppi a cui assistiamo con la angosciante sensazione che forse tutto ciò poteva essere evitato o quantomeno contenuto. A tal fine, cominciamo a sgombrare il campo da alcuni grossolani equivoci che creano confusione nel dibattito corrente.

Per prima cosa, va detto a chiare lettere che c’è una netta differenza tra la resa (vale a dire accettare le condizioni del vincitore issando “bandiera bianca”, termine usato impropriamente dal papa come sinonimo di trattativa), l’“appeasement” (cioè un accordo ottenuto al prezzo di gravi concessioni sostanzialmente ingiustificate in favore di una sola parte) e il negoziato (che è il meccanismo in cui due parti trattano duramente, anche a lungo, per trovare una sistemazione equilibrata dei rispettivi interessi in gioco, nel presupposto che la diplomazia è l’arte del possibile e non del desiderabile). Da ciò deriva che, in sé, instaurare un negoziato non è assolutamente una sconfitta, perché tutto dipende da come le trattative evolvono, considerando inoltre che da un negoziato ci si può ritirare in qualunque momento.

In secondo luogo, non ha senso sostenere che con qualcuno non si deve parlare e negoziare perché è troppo “cattivo”. Il vero scopo della diplomazia non è tanto instaurare un dialogo con gli amici, quanto piuttosto con gli interlocutori difficili, che siano autocrati, dittatori o terroristi. Pensare il contrario significa abbattere drasticamente le potenzialità del metodo diplomatico, riducendo irrazionalmente il proprio ventaglio di strumenti per la ricerca di una soluzione pacifica. Egualmente, porre pre-condizioni per accettare di intavolare il negoziato significa non farlo decollare, vale a dire in realtà non volerlo (se in una guerra si chiede il preventivo ritiro delle truppe avversarie, ovviamente il negoziato non partirà mai).

In terzo luogo, come diceva Henry Kissinger, le decisioni politiche non vanno giudicate in astratto – chiedendosi semplicemente se sono giuste o morali – ma piuttosto sulla base delle probabili conseguenze. Una decisione giusta può avere infatti risultati pessimi se mancano i presupposti per realizzarla. In altre parole, una strategia che funzioni deve essere precisa e realistica quanto agli obiettivi che si prefigge e non basata sui desideri.

Fatte queste cruciali premesse, prendiamo come esempio il conflitto in corso in Ucraina. In sintesi, si può dire che due sono le posizioni principali sinora configuratesi al riguardo in Occidente rispetto a un possibile negoziato. La prima è il pacifismo assoluto, che più o meno accetta le sanzioni contro Mosca ma rifiuta l’invio di armi a supporto di Kiev, nella convinzione che la responsabilità maggiore del problema ricada sulla Nato, rea di un progressivo accerchiamento della Russia. Tale posizione rischia di consegnare Kiev a Mosca, portando in pratica alla “bandiera bianca” e alla resa di fronte a un’aggressione, sacrificando l’integrità e l’indipendenza dell’Ucraina, con conseguenze ingiuste e inaccettabili. Non prevede dunque un reale negoziato, ma al massimo una sorta di “appeasement”.

La seconda è l’oltranzismo atlantico, che arma Kiev (senza scendere direttamente in campo) e rifiuta ogni ipotesi di negoziato o lo rimanda a tempi indefiniti contando su ipotesi improbabili, quali una sconfitta militare della Russia o una malattia mortale di Putin, ovvero un colpo di Stato interno contro di lui. Ciò nel presupposto che Putin voglia ricostituire l’Unione Sovietica o l’Impero di Pietro il Grande e che quindi la resistenza ucraina sia il baluardo per fermare tale progetto e addirittura riconquistare tutti i territori ucraini occupati da Mosca a partire dal 2014 (secondo altre interpretazioni, il motivo prevalente di tale approccio sarebbe in realtà la volontà anglosassone di logorare Putin tramite una classica guerra per procura). Tale scelta – che ha sin qui prevalso – ha portato a conseguenze nefaste e all’attuale vicolo cieco a seguito del (prevedibile) fallimento della controffensiva ucraina. Nella migliore delle ipotesi, si può arrivare a uno stallo di fatto e a un conflitto “congelato”, implicante il rischio permanente di un’improvvisa ripresa delle ostilità e, comunque, provocando una dannosa instabilità per tutto il continente europeo. Nella peggiore delle ipotesi, si potrebbe scatenare un confronto diretto tra Russia e Nato con conseguente guerra mondiale, come le recenti dichiarazioni di Macron (seppure molto elettorali) e la reazione russa adombrano sinistramente.

Esiste un atteggiamento, che potremmo definire atlantismo pragmatico, secondo il quale si ritiene che Putin non abbia mire imperiali, ma voglia limitarsi a mantenere una sorta di cordone di sicurezza attorno a sé

Appare chiaro che entrambe le suddette impostazioni non creano i presupposti per un negoziato diplomatico. Esiste però un terzo atteggiamento, che potremmo definire atlantismo pragmatico, secondo il quale – pur giudicando corretta la fornitura di mezzi militari a Kiev per consentirle di difendersi – si ritiene che Putin non abbia necessariamente mire imperiali sull’Europa, ma voglia piuttosto limitarsi a mantenere una sorta di cordone di sicurezza attorno a sé, non accettando un’eccessiva influenza militare ed economica degli Usa in Ucraina (corridoio utilizzato da Napoleone e Hitler per tentare l’invasione della Russia) e, presumibilmente, in Moldova e Georgia, impedendone al contempo l’adesione alla Nato. Da qui la necessità di esplorare con tenacia e convinzione la possibilità di sedersi appena possibile a un tavolo per discutere i rispettivi interessi di sicurezza, avendo già fatto chiaramente capire a Putin che non può usare la violenza impunemente. Tale approccio pragmatico è malauguratamente rimasto minoritario sino a oggi, il che non ha consentito di dare una vera “chance” all’ipotesi di un negoziato serio e serrato, eventualmente anche in corso di ostilità (come avvenuto ad esempio nel caso vietnamita).

Per dare concretezza al tipo di negoziato che ho in mente, faccio il caso della Crimea. Temo – come molti altri osservatori – che assai difficilmente verrà recuperata da Kiev, ma ritengo anche che in tale ipotesi Putin non dovrebbe ottenerla gratuitamente. In sede di trattative, potrebbe pertanto essere opportuno legare il riconoscimento dell’annessione russa della penisola contesa al riconoscimento da parte di Mosca dell’indipendenza del Kosovo, per tre ragioni: il dittatore russo ha talora fatto riferimento alla creazione dell’entità kosovara come esempio di non rispetto da parte occidentale del principio della immutabilità delle frontiere in Europa, giustificando con ciò la sua presa della Crimea; inoltre, tale riconoscimento incrociato incoraggerebbe anche gli altri Paesi che non hanno riconosciuto il Kosovo, in particolare la Serbia, a rivedere nel tempo la propria posizione, eliminando così una ferita infetta potenzialmente foriera di conflitti nei Balcani; dato infine che Kiev è destinata in futuro a entrare nell’Ue, il forte interesse europeo alla stabilità del quadrante balcanico diventerebbe automaticamente parte anche dell’interesse nazionale ucraino e pertanto l’amputazione di quella porzione di territorio acquisterebbe un senso geopolitico pure per gli Ucraini, che avrebbero in cambio più sicurezza a fronte della perdita territoriale subita.

In questa ottica pragmatica – lasciando da parte per brevità l’inerzia che ha fatto fallire gli Accordi di Minsk del 2015 – il primo momento in cui si poteva tentare di dare spazio a una postura negoziale potrebbe addirittura essere considerato, secondo alcuni, il periodo antecedente l’attacco russo del febbraio 2022, quando Mosca ha presentato un pacchetto di richieste scritte (in sintesi, la promessa occidentale di non far entrare l’Ucraina nella Nato e di non schierare determinati materiali militari nei Paesi dell’Alleanza adiacenti alla Russia) e gli Usa hanno deciso di non discuterle nemmeno, considerandole eccessive e irricevibili. Ora, in diplomazia è noto che spesso si chiede 100 per ottenere 10 e può dunque essere opportuno quantomeno sedersi a un tavolo per verificare se e quanto l’interlocutore è flessibile rispetto alle sue domande iniziali. Questo non è stato minimamente fatto.

La seconda occasione, più rilevante, si è presentata nella primavera del 2022, quando la imprevista ed efficace resistenza ucraina ha messo in seria difficoltà l’esercito di Putin. Secondo molti, quello era il momento giusto di far notare al dittatore ex Kgb, da una posizione di vantaggio, che siamo in grado di fargli molto male se usa la violenza, invitandolo a trattare per trovare una soluzione, magari nel contesto più ampio di un’architettura di sicurezza generale, a cui Mosca tiene molto. Spesso si sente obiettare al riguardo che Putin non sarebbe disposto a negoziare, ma in realtà il vero punto è capire chi deve fargli l’offerta di sedersi a un tavolo. Ebbene, non certamente i Paesi europei, dato che a più riprese Mosca ha affermato di considerare come proprio interlocutore gli Usa. Ciò in quanto, evidentemente, le priorità russe sono il ridimensionamento di quella che considerano un’eccessiva influenza militare ed economica americana in Ucraina, nonché la discussione sulla sicurezza a livello strategico.

È chiaro che solo Washington può affrontare tali cruciali aspetti e finora – mentre gli europei hanno effettuato inutili e frustranti viaggi a Mosca, non avendo granché da offrire – il presidente Usa non ha mai contattato Putin per proporgli un negoziato in cui gli Stati Uniti avrebbero affiancato l’Ucraina insieme agli europei e ad altri eventuali mediatori, quali Turchia, Israele o Cina (il nostro Draghi suggerì timidamente a Biden di fare una telefonata a Putin, ma ottenne solo l’irrilevante contentino di una chiamata del capo di Stato maggiore americano al suo omologo). Dunque, tuttora non sappiamo quale sarebbe la reazione russa a tale possibile offerta. Non solo, secondo quanto rivelato dall’allora premier israeliano Naftali Bennet in una video-intervista disponibile online, ucraini e russi avrebbero raggiunto proprio in quel periodo, con l’aiuto dei mediatori, un’intesa di massima incentrata sulla neutralità di Kiev simile a quella austriaca (dunque verosimilmente bilanciata dall’adesione all’Ue), bloccata però da Boris Johnson a nome degli anglosassoni, scoraggiando Zelensky a proseguire in quel tentativo e facendolo naufragare. Circostanza confermata anche da fonti turche, russe e persino ucraine. In sostanza, è prevalso quell’irrazionale e inspiegabile “pensiero magico” – criticato da vari politologi – secondo cui essendo Putin il cattivo di turno, i buoni vinceranno comunque (tra l’altro dimenticando che a suo tempo con l’Urss si trattava, benché avesse invaso Ungheria e Cecoslovacchia e internasse i dissidenti nei lager e negli ospedali psichiatrici).

È evidente che – dopo il fallimento della controffensiva ucraina, i sintomi di stanchezza degli alleati di Kiev e la ripresa dell’iniziativa da parte di Mosca – adesso è molto più difficile far decollare un negoziato

Veniamo all’oggi. È evidente che – dopo il fallimento della controffensiva ucraina, i sintomi di stanchezza degli alleati di Kiev e la ripresa dell’iniziativa da parte di Mosca – adesso è molto più difficile far decollare un negoziato, non solo perché ormai il 20% del territorio ucraino è in mano ai russi, ma anche perché Biden è in campagna elettorale (e dunque ancor meno propenso a farsi vedere conciliante verso Putin) e la Russia al momento ha meno interesse ad accettare un negoziato sapendo che potrebbe tornare Trump alla Casa Bianca, da cui spera di ottenere maggiori concessioni. Cosa fare allora in attesa delle elezioni Usa? Certamente continuare ad aiutare militarmente l’Ucraina per impedire la perdita di ulteriori territori o quantomeno il tracollo del Paese, ma parallelamente preparare seriamente il terreno a uno sbocco diplomatico, come autorevolmente suggerito lo scorso 5 marzo sulla rivista “Foreign Affairs” da Samuel Charap e Jeremy Shapiro (rispettivamente della Rand Corporation e dello European Council for Foreign Relations, prestigiosi enti di ricerca non certo sospettabili di filo-putinismo).

I due politologi ritengono che l’assenza di qualsiasi forma di dialogo renda impossibile capire le reali intenzioni dell’avversario, perpetuando una guerra in cui tutti stanno perdendo in un modo o nell’altro. La sfiducia tra le parti contrapposte – tipica di ogni conflitto – può e deve essere scalfita da segnali concreti che, pur non fermando subito le ostilità, siano capaci di mutare l’atmosfera generale e dare l’opportunità alla controparte di reciprocare i gesti fatti (ad esempio moderando l’enfasi retorica nelle dichiarazioni pubbliche, nominando inviati speciali per futuri possibili negoziati, evitando attacchi particolarmente aggressivi, proponendo scambi di prigionieri, e così via). In tal modo, nel 2024 si potrebbe almeno avviare un processo mirante a facilitare il raggiungimento di un vero e proprio momento negoziale. Tale approccio appare molto razionale e di buon senso comune, in quanto volto a testare le reali intenzioni di Mosca, sia attraverso la sua risposta ai segnali di dialogo da parte di Usa, Ucraina ed Europa, sia tramite il suo comportamento in occasione delle vere trattative quando avessero luogo. Solo così potremo sapere con certezza se la Russia ha davvero mire imperialistiche o è invece esclusivamente interessata a ottenere delle rassicurazioni per la propria sicurezza. L’Europa – in particolare Francia, Germania e Italia – dovrebbe fare pressione su Washington affinché venga intrapresa tale direzione.

Personalmente, concordo con i politologi convinti che Putin non abbia l’intenzione di ricreare l’Impero sovietico o zarista, per il semplice fatto che non è in grado di farlo: non ha un esercito adatto e sufficiente per conquistare e occupare vasti territori, essendo tra l’altro sul punto di esaurire tutto l’armamentario bellico pesante accumulato durante la Guerra fredda; anche ammessa l’ipotesi, tutta da verificare, di una Nato molto più debole con Trump, rischierebbe comunque di trovarsi in guerra con gli eserciti di 32 Paesi dotati di tecnologia avanzata e che stanno giustamente rafforzandosi; non sarebbe incline – al di là della retorica e salvo una minaccia davvero esistenziale al Paese – a usare la bomba atomica contro l’Occidente, perché non è un autocrate fanatico come Hitler disposto a rischiare di morire per l’ideologia, ma piuttosto il capo freddo e razionale di un sistema cleptocratico i cui membri sono molto attaccati alla (bella) vita; infine, l’economia russa non potrebbe reggere una campagna bellica europea pluriennale senza una pressione insostenibile sulle imprese e la popolazione, che eroderebbe fatalmente il consenso al regime.

In ogni caso, se davvero rifiutasse il negoziato o le sue richieste si rivelassero impossibili, saremmo sempre in tempo a prendere atto delle sue mire imperialiste e a rassegnarci a un conflitto ucraino molto lungo o pericolosamente “congelato” o addirittura imbarcarci in una guerra totale, posture giustificabili solo se rappresentassero l’extrema ratio dopo ogni possibile tentativo diplomatico serio da parte nostra. Questo “test” su Putin, per tentare di uccidere i mostri che il sonno della diplomazia ha generato, sembra davvero il minimo che possiamo moralmente fare di fronte all’enorme numero di vittime militari e civili, nonché ai milioni di rifugiati e sfollati alla cui tragedia assistiamo ogni giorno comodamente seduti sui nostri divani. Perché non si tratta di un videogame in cui muovere pedine virtuali, ma di sangue e distruzione veri, come ci ricorda ogni giorno, con coraggiosa caparbietà, papa Francesco.