La sentenza della Corte costituzionale ha spostato l’attenzione di tutti sulla data delle prossime elezioni. L’analisi del voto referendario sembra oggi un esercizio di archeologia elettorale in grado di appassionare i pochi adepti della disciplina. Peccato, perché l’analisi del voto avrebbe molto ancora da offrire. Quanto è accaduto è abbastanza chiaro, a grandi linee: un voto politico contro il governo. Ma, per l’appunto, a grandi linee. I dettagli da esaminare sono ancora tanti, dal ruolo delle motivazioni economiche alle diversità territoriali alle caratteristiche demografiche e sociali degli elettori del «no», anche se su quest’ultimo punto sono già disponibili alcune analisi.
Non è invece un dettaglio capire a quali condizioni sarebbe stata possibile la vittoria del «sì». Condizioni politiche, data la natura politica del voto. E poi sarebbe importante anche prendere misure più accurate degli effetti sul voto della cosiddetta personalizzazione impressa da Renzi alla campagna per il «sì». Entrambe le questioni possono essere affrontate sul piano empirico con un’analisi controfattuale. Si tratta di esaminare, sulla base di un modello di stima del voto basato su uno o più campioni rappresentativi di elettori, se cambiando il valore dei parametri di alcune determinanti della loro scelta di voto le proporzioni del «sì» e del «no» si modificano. È chiaramente un gioco che produce un esito virtuale, ma ci aiuta a capire che cosa sarebbe dovuto accadere il 4 dicembre scorso perché vincesse il «sì» e poi ci offre qualche idea sull’effettiva portata della cosiddetta personalizzazione, sia in negativo sia in positivo.
Il modello utilizzato si basa sui dati di diverse indagini: un’indagine telefonica Ipsos e l’ultima ondata del panel online Itanes-Unimi, entrambe svolte dopo il 4 dicembre. Abbiamo anche considerato i dati relativi all’ondata del panel Itanes-Unimi svolta nel giugno del 2016 per confermare l’entità di alcune dinamiche. Il modello utilizzato stima la probabilità di scegliere il «sì» contro il «no» sulla base di molte variabili che misurano la valutazione dei leader più importanti (D’Alema incluso), la propensione a votare per ciascuno dei partiti in campo oggi, i giudizi sull’economia, l’opinione sulla riforma costituzionale e poi diverse caratteristiche demografiche degli intervistati.
Ovviamente non tutte le indagini consentivano di includere tutte queste variabili nei modelli di stima. Comunque i risultati sono coerenti tra loro, a cominciare dal fatto che i modelli predicono in oltre il 90% dei casi la scelta per il «sì» o per il «no» degli intervistati. Le proporzioni del «sì» e del «no» stimate da questo modello sono molto vicine a quelle reali (40% contro il 60%, con una forchetta di tre punti). Per simulare la vittoria del «sì», è necessario ridurre di 4 volte i parametri delle variabili relative alla valutazione dei leader dei partiti di destra e di Grillo e quelli della propensione a votare per i rispettivi partiti, lasciando ovviamente inalterati i parametri delle altre variabili. In questo caso il «sì» avrebbe preso il 52% dei voti entro una forchetta tra il 49% e il 55%. Ovviamente suddividendo ulteriormente i parametri di quelle variabili la vittoria del «sì» sarebbe stata più certa, se di certezza si può parlare in questo gioco. Modificando lo schema di analisi e manipolando i parametri relativi alla valutazione di Renzi e alla propensione a votare Pd, lasciando però inalterati quelli delle altre variabili, il «sì» avrebbe vinto se la valutazione di Renzi fosse stata così positiva da far raddoppiare il parametro del suo effetto stimato. In questo caso il «sì» sarebbe arrivato al 52% con forchetta tra 50% e 56%. Viceversa raddoppiando l’effetto della propensione a votare il Pd il «sì» non avrebbe vinto. Le analisi sono sempre simulazioni. Ma a noi sembra che manipolare le variabili relative alle forze di destra dia più informazioni della manipolazione della valutazione di Renzi.
La prima analisi mostra quale è stata probabilmente la reale pietra d’inciampo che ha fatto cadere le possibilità di vittoria del «sì». La seconda simulazione suggerisce che la leadership di Renzi aveva delle potenzialità, ma indica una condizione virtuale per la vittoria dei «sì» irraggiungibile nel mondo reale. Anche perché, passando al secondo problema relativo al contributo dato dalla personalizzazione impressa da Renzi e da quello del partito sul risultato finale, le simulazioni fatte mostrano che riducendo della metà l’effetto stimato della valutazione di Renzi e lasciando inalterato tutto il resto (propensione a votare Pd compresa), il «sì» passa dal 41 stimato al 33% (con tre punti in più o in meno). Mentre riducendo sempre l’effetto della propensione a votare Pd, lasciando però inalterato tutto il resto (valutazione di Renzi compresa), il «sì» scende dal 41% al 38,5%. Non c’è dubbio che la leadership di Renzi sia stata un valore aggiunto nella battaglia per il «sì», ma è un valore aggiunto che si intreccia in parte con la forza del Pd. Il valore aggiunto dato da Renzi al 40% dei «sì», forse si colloca tra 7 e 2 punti. Di più con questi dati è difficile dire. Abbiamo inoltre replicato queste analisi su altri dati post referendari e la storia è tutto sommato simile. L’analisi svolta sui dati di giugno 2016 mostra le stesse dinamiche di quelle post referendarie. Possiamo dunque formulare due conclusioni e un caveat.
Il «sì» ha perso perché non c’erano le condizioni politiche perché potesse vincere; ha pagato il peso dei rapporti di forza degli allineamenti elettorali. Per vincere o non si doveva fare il referendum oppure occorreva tenersi stretto il patto del Nazareno, scommettendo su Forza Italia. Infatti, a complemento della precedente analisi, ancora a dicembre 2016 basta invertire il segno dell’effetto relativo alla simpatia per Berlusconi e quello della propensione a votare FI, lasciando inalterato tutto il resto, che il «sì» passa da 40% al 53%. In sostanza la scelta della dirigenza Pd di rompere con Forza Italia, in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica, ci ha donato un ottimo presidente, ma reso impossibile l’approvazione della riforma costituzionale. È stato quindi un errore strategico, forse generato da errori di valutazione sulla effettiva capacità di Renzi di allargare in virtù della sua immagine personale il consenso alla riforma costituzionale. Errori peraltro ai quali ha dato contributi indimenticabili buona parte della stampa, antipatizzante e simpatizzante, con dibattiti surreali sul partito della nazione, sul senso politico della candidatura Sala, per non dire della interpretazione delle europee, vero punto di avvio della realtà virtuale. Insomma, a tratti è sembrato di vivere in una realtà popolata da chimere.
Resta il fatto che la personalizzazione c’è stata, ma ha funzionato a favore del «sì» soprattutto tra gli elettori del Pd e marginalmente tra quelli che erano favorevoli al «sì», senza essere elettori propensi a votare il Pd. Pochi, come si è visto. Il caveat è che questa analisi non suggerisce nulla circa il futuro, se non il fatto che è opportuno non credere alle chimere, come quella relativa alla traducibilità del 40% di «sì» in sostegno al Pd. Occorrerà fare analisi più puntuali, ma per ora è difficile pensarlo, se non altro perché, date le regole proporzionali con cui si voterà, agli italiani verrà offerta una molteplicità di opzioni che metterà a dura prova la capacità di tenuta del partito che per dimensioni resta, ad oggi, l’unico elemento di stabilità del sistema politico.
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