Sopravvalutare il significato e le ripercussioni del voto negativo sul referendum costituzionale è difficile: l’intera prospettiva politica che aveva sorretto l’azione del governo Renzi rischia di frantumarsi contro il responso delle urne e per ora l’incertezza regna sovrana. Se si dà all’espressione «governo» un significato forte – un indirizzo politico capace di invertire mediante riforme incisive il declino del nostro Paese - è difficile negare che Renzi abbia provato a governare in questo modo. La stessa riforma costituzionale sulla quale è caduto era una riforma di grande rilievo per la governabilità. Così com’era e rimane una riforma importante quella sul mercato del lavoro. E come lo sono le numerose riforme attuate o parzialmente attuate nel corso del suo governo, dalla scuola alla giustizia, dalla pubblica amministrazione alle riforme fiscali. Su tutte queste, e su altre di minor rilievo economico, è possibile avere riserve o dissensi, ma l’insieme rivela un progetto riformatore non eguagliato dagli altri governi che si sono succeduti nel nostro Paese da quando è entrato nell’Unione Economica e Monetaria, nel 1999.
E allora che cosa è andato storto? In questi giorni ci ho pensato lungamente perché anch’io, come altri commentatori, ero stato favorevolmente impressionato dall’energia e dall’abilità politica di Renzi. Mi rendevo conto che i guasti della nostra economia e le difficoltà del contesto europeo e internazionale non avrebbero consentito una rapida ripresa della crescita, ma speravo che l’ottimismo del capo del governo producesse il miracolo di un diffuso consenso popolare: per un lungo periodo non era forse riuscito anche a Berlusconi? In economia e in politica, purtroppo, non avvengono miracoli e ora mi rendo conto che quella di Renzi è stata una mission impossible fin dalla sua prima concezione e soprattutto dopo la rottura del Patto del Nazareno.
La missione era impossibile non solo e non tanto perché coalizzava troppi avversari politici, ma perché questi avrebbero trovato nell’insoddisfazione degli elettori una vasta base di consenso. E l’insoddisfazione degli elettori era inevitabile. Anche se le riforme fossero state le migliori possibili, le più adatte a sollevare l’Italia dalla stagnazione di cui soffre, esse avrebbero preso tempo, troppo tempo, per manifestare effetti favorevoli, percepibili dalla grande massa dei cittadini. L’economia ristagna, le banche sono in crisi, le istituzioni funzionano male e i cittadini, specie i giovani e coloro che versano in condizioni più disagiate, lo sentono sulla propria pelle. Gli annunci continui, l’attivismo mediatico, le misure di sollievo parziali e selettive – le armi utilizzate da Renzi per suscitare consenso – si sono rivelate spuntate e forse controproducenti in una situazione in cui il disagio e il pessimismo recedevano troppo lentamente. È stato allora facile per le opposizioni, non obbligate a presentare un programma realistico di governo, scatenare contro il premer l’ostilità di tanti italiani nella facile occasione del referendum, di fatto un plebiscito sulla popolarità del premier.
Il ristagno economico del nostro Paese ha cause profonde nazionali e internazionali ed è destinato a durare o ad attenuarsi lentamente: le risorse destinabili a incrementare il benessere immediato dei cittadini sono limitate e rischiano di andare a detrimento di misure di riforma strutturali serie. Aizzata da movimenti che propongono rimedi tanto drastici quanto illusori, l’insoddisfazione di buona parte degli italiani è endemica, quasi pregiudiziale: inutile illudersi che si rendano conto dell’estrema difficoltà del compito riformatore, portino pazienza e facciano sconti a chi governa, specie quando i media, le procure, i movimenti populisti li bombardano con continui episodi di incompetenza e corruzione. Per evitare che il Paese cada nel baratro dell’ingovernabilità il governo dev’essere abbastanza forte da resistere a una minoranza consistente di cittadini e movimenti politici ostili. Di conseguenza è probabilmente inevitabile adattarsi alla strategia del “meglio meno, ma meglio”: la frase è di Lenin, ma rende l’idea anche in un contesto democratico. La riassumo in tre «lezioni».
Anzitutto rassegnarsi a una coalizione tra tutte le forze riformistiche e filoeuropee, come avviene quasi ovunque in Europa sotto la minaccia dei populismi. Un partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria era già un obiettivo difficilmente raggiungibile in un contesto bipolare, prima della crescita impetuosa delle forze populistiche: è impossibile oggi. Seconda lezione: salvare il salvabile. Molte riforme in corso di attuazione sono accettabili da un ampio spettro di forze politiche riformiste e garantire la continuità del disegno riformatore non dovrebbe essere impossibile. Tra tutte le riforme del precedente governo la più delicata e importante era quella costituzionale, e qui la lezione è semplice. Poiché un referendum di questa ampiezza e difficoltà trasforma il voto in un plebiscito improprio sul governo, si possono fare solo quelle riforme costituzionali che sono in grado di raccogliere in parlamento i due terzi dei consensi, in modo da evitare il voto referendario: altrimenti è meglio soprassedere.
Ma esiste in questo Parlamento, o può essere costruita nel prossimo, una robusta maggioranza riformista e filoeuropea, che sappia resistere alle forze disgregatrici che sempre affliggono coalizioni politicamente eterogenee? Se non esiste e non può essere costruita temo che perderemo anche i pochi margini di autonomia rispetto all’Unione europea di cui abbiamo goduto col precedente governo.
[Questo articolo è stato pubblicato sul «Corriere della Sera» il 4 gennaio scorso. A parte la correzione di un errore, non ci sono variazioni rispetto all’articolo del «Corriere». Vorrei però sottolineare che non si dice nulla, (a), circa le leggi elettorali di cui si discute in questi giorni e si continuerà a discutere anche oltre il 24 gennaio, quando la Consulta emetterà il suo verdetto, e che, (b), l’auspicabile ma difficilmente realizzabile «coalizione di tutte le forze riformistiche e filoeuropee» non implica necessariamente una legge elettorale proporzionale. Al momento non vedo ragioni per mitigare l’allarme con il quale l’articolo si chiude. Ci sono invece ragioni per un breve commento a due reazioni pubbliche negative che questo pezzo ha suscitato. Quella di Mauro Barberis è una brevissima e violenta «reazione da blog» sul sito del «Fatto Quotidiano»: essendo parte della direzione della nostra rivista, Mauro aveva altri mezzi per esprimere in modo più meditato il suo dissenso. Ben diversa la reazione di Massimo Mucchetti apparsa nel suo blog sull’«Huffington Post», di cui consiglio la lettura. Negativa certo, ma insolitamente lunga e argomentata: l’avremmo volentieri pubblicata sul nostro online e avrebbe dato origine a un dibattito raziocinante. Un dibattito che faremo, con calma, in ogni caso, perché la sconfitta del (primo?) renzismo è un evento che segna una cesura nella nostra storia politica.]
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