Un referendum costituzionale non è mai un pranzo di gala. La riforma della Costituzione mobilita necessariamente idee e sentimenti, speranze e paure. Tuttavia, in Europa, i referendum sistemici hanno acquisito, in un’epoca di intensa interdipendenza tra Stati, un carattere generale e non solo nazionale. Gli esiti referendari nel dopo-Maastricht hanno implicazioni diverse da quelle del periodo pre-Maastricht. Oggi, qualsiasi referendum, che abbia un carattere (va da sé) non specifico o particolaristico, finisce per intrecciare problematiche nazionali e conseguenze sovranazionali, un intreccio che inevitabilmente complica il contenuto di quel referendum. Se il referendum, per sua natura, è trasversale alla divisione domestica tra sinistra e destra, il referendum dell’epoca dell’interdipendenza destruttura ulteriormente quella divisione, intrecciandola con una frattura che concerne il ruolo di quel Paese nel processo di integrazione. Chi ha votato per Brexit lo ha fatto pensando alle proprie condizioni economiche o ai propri sentimenti nazionali, ma le conseguenze di quel voto sono andate molto al di là di quelle considerazioni. Brexit è destinata a modificare in modo strutturale i rapporti tra il Regno Unito e il mondo, oltre che tra esso e l’Europa. Il fatto di non avere anticipato e tanto meno governato quelle conseguenze costituisce il fallimento storico di una élite politica – quella britannica – che pure era stata finora considerata tra le più responsabili dell’Occidente.
Non così drammatiche (ma non diverse) saranno le conseguenze di una vittoria del «no» al referendum costituzionale del 4 dicembre. Infatti, anche in quest’ultimo caso vi è un intreccio inevitabile tra problematiche nazionali e conseguenze sovranazionali: un intreccio che è destinato a produrre guasti proprio perché non sembrano esserne consapevoli le élite politiche e culturali dell’opposizione alla riforma. Cominciamo da quelle politiche.
Certamente Renzi ha compiuto un errore a personalizzare inizialmente la campagna referendaria e ha fatto bene a riconoscerlo. Tuttavia, il suo passo indietro non ha potuto cambiare la logica del dibattito referendario che si è ormai consolidata. Per gli oppositori (di destra e di sinistra) della riforma costituzionale, quest’ultima non conta in quanto tale. Per loro il referendum è una ghiotta occasione per fare una campagna contro il governo, non già contro la proposta di riforma approvata dalla maggioranza del Parlamento. Basti pensare che gli oppositori della riforma non sono riusciti neppure a raccogliere le firme necessarie per sottoporre a referendum quella riforma. Si tratta di opposizioni così spurie e variegate che non sarebbero in grado di identificare un solo punto di accordo in positivo su cui convergere, se non la preservazione dell’esistente quadro costituzionale e il ritorno a una sorta di proporzionalismo elettorale. Per di più, se si escludono le componenti radicali del fronte del «no» (come i Cinque Stelle, la Lega e Sinistra italiana) – componenti che avevano contrastato il processo riformatore – i settori moderati (tra cui esponenti della stessa Lega) di quelle opposizioni avevano inizialmente contribuito a definire il progetto di riforma, votandolo più volte in Parlamento.
Naturalmente si è trattato di un voto per convenienza. Tant’è che è stato un fatto politico esterno alla riforma costituzionale (l’elezione dell’attuale presidente della Repubblica) a portare esponenti politici come Renato Brunetta o Paolo Romani a cambiare posizione nel giro di una notte. Ma che c’entra, ci si potrebbe domandare, l’elezione di Mattarella con la riforma del bicameralismo parlamentare?
Il risultato è la formazione di uno schieramento politico costituito di élite negative. Cosa hanno in comune Fassina e Salvini, Bersani e Schifani, Di Maio e Meloni? Nulla, se non l’interesse a conservare l’attuale assetto costituzionale che ne ha garantito la carriera politica. Come se non bastasse, D’Alema e Quagliariello, preoccupati di non apparire delle élite negative, hanno addirittura presentato un progetto di riforma a un mese dal referendum del 4 dicembre, come se cambiare la Costituzione fosse un passatempo da sabato sera. Fantastico.
Lo schieramento politico del «no» è molto di più di un’armata Brancaleone, tenuta insieme dal livore verso il governo (e il suo primo ministro). È piuttosto una coalizione di irresponsabili che non si pongono il problema delle conseguenze delle loro azioni. Si tratta di una élite politica «argentina», motivata da rivalità personali, prigioniera delle proprie ambizioni, interessata (nel nostro caso) a ritornare all’Italia proporzionalista del passato. Al pari dei Johnson e dei Farage, anch’essa non si pone il problema del dopo. Chiuse nel loro parrocchialismo, quelle élite politiche non riescono a immaginare il calo di credibilità che avremmo in Europa, se fossimo incapaci persino di adeguarci agli standard correnti di funzionamento democratico (siamo l’unico Paese, con la parziale eccezione della Romania, ad avere il doppio voto di fiducia per il governo).
Non può sorprendere che questo parrochialismo sia sostenuto e giustificato da gruppi accademici e mediatici, perché così è avvenuto nella lunga vicenda repubblicana. Anche qui, la coalizione delle élite culturali a difesa dello status quo è altrettanto spuria e variegata. Vi sono i radicali (giornalisti o archeologi o filosofi che si improvvisano esperti di costituzioni) che denunciano nei vari talkshow il complotto dei poteri finanziari o di J.P. Morgan per trasformare la democrazia italiana, con la riforma, in un regime autoritario.
Posizioni che trovano una naturale convergenza con gli apocalittici, come quel presidente emerito della Corte costituzionale secondo il quale la riforma costituzionale costituisce il tentativo di introdurre un regime «oligarchico» (cioè? boh) in Italia.
Ci sono poi coloro (come i 55 costituzionalisti del manifesto pubblicato tempo fa) che sono contro la riforma, pur condividendone il disegno, perché la ritengono confusa o prolissa in alcune sue parti. Insomma, studiosi che preferiscono far deragliare il treno perché contrariati dal colore dei suoi scompartimenti. Per il normativismo giuridico italiano, la riforma o è perfetta o non si deve fare. Naturalmente, la perfezione «è come la definisco io». Tant’è che se i nostri studiosi dovessero scrivere insieme la riforma costituzionale, il risultato non sarebbe molto diverso dal governo che dovrebbero fare insieme gli oppositori politici della riforma, se vincessero il referendum.
Infine, ci sono anche i dannunziani di ritorno: «sono contro la riforma per ragioni estetiche». Fantastico. Anche questa coalizione intellettuale è fondamentalmente italo-centrica. Le conseguenze esterne del rifiuto della riforma non sono neppure concettualizzate. I due parrocchialismi, quello politico e quello intellettuale, si alimentano a vicenda. Dopo tutto, le élite negative (politiche e culturali) hanno un tratto in comune: l’autoreferenzialità. A loro non interessa il Paese, tanto meno la sua credibilità in Europa e nel mondo. A loro interessa esclusivamente preservare se stessi e la loro posizione politica e sociale. D’accordo che la riforma costituzionale non è un pranzo di gala. Ma l’Italia avrebbe meritato una critica più responsabile di essa.
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