Due autorevoli rappresentanti del mondo politico-culturale intervengono nel dibattito sul referendum costituzionale, cercando di portarlo ad alti livelli di riflessione, e lo fanno lasciando intendere che oggi sono in gioco la democrazia versus l'oligarchia.
È davvero significativo e opportuno impostare il discorso in questi termini, come fanno Gustavo Zagrebelsky ed Eugenio Scalfari, esasperando o nobilitando culturalmente, per così dire, le ossessive contrapposizioni di parte del dibattito in corso? Le smisurate personalizzazioni dei partecipanti? L'intimidazione reciproca dei fans dell'una e dell'altra parte? Temo di no.
Lo dico al di là delle intenzioni e degli argomenti di entrambi gli interlocutori. L'ultimo intervento di Zagrebelsky, due giorni fa su «Repubblica», è naturalmente ben articolato; ma alla fine dagli argomenti più insistiti il lettore rischia di dedurre semplicemente che chi risponde «sì» al referundum contribuisce a portare dritto il Paese alla oligarchia, mentre chi risponde «no» è il difensore della democrazia.
Di fronte a un giudizio del genere, capisco la viva riconoscenza dei Salvini, dei Grillo, dei Brunetta, dei berlusconiani di varia provenienza che si accontenterebbero semplicemente di «mandare a casa Renzi»; poi si vedrà. Soltanto i più avvertiti si affrettano ad anticipare progetti alternativi, senza però preoccuparsi minimamente se una eterogenea maggioranza anti-renziana riuscirà a realizzarli. Che fare poi con l'Europa, con l'euro - rispetto al quale si coltiva soltanto un estremo scetticismo?
Questa mi sembra la beffarda realizzazione della tesi di Zagrebelsky, che nel sostenere che «la democrazia è conflitto» aggiunge che «quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie». Come se un'ipotetica affermazione del «sì» significasse automaticamente l'estinzione del conflitto. Zagrebelsky infatti lascia intendere, dai toni drammatici usati, che l'affermazione del «sì» aprirebbe la strada a una «realtà fittizia, artefatta costruita con discorsi propagandistici, blandizie, regali e spettacoli».
Stento a credere a questa prospettiva, anche davanti a tutti i limiti del cosiddetto renzismo che abbiamo sotto gli occhi. Né mi convince l'idea secondo cui le modifiche costituzionali proposte portino senz'altro nella direzione sopra descritta. Perché non potrebbero segnare i primi passi provvisori e imperfetti per superare lo status quo? Purché a questo superamento si lavori tutti insieme. Spero che Renzi lo abbia capito e abbandoni i suoi atteggiamenti di autosufficienza.
O tutto questo è un semplice camuffamento di «oligarchia»? Scalfari nel suo intervento su «Repubblica», precisa puntigliosamente con una serie di esempi storici che cosa si debba intendere con «oligarchia». Giungendo a concludere che questa non costituisce per definizione «il governo dei migliori» ma «la sola forma di un governo democratico».
Si tratta anche in questo caso un'affermazione troppo perentoria, che cancella la inderogabile necessità dei meccanismi di rappresentanza senza i quali non esiste democrazia. Insomma, mi pare che i due interlocutori arrivino a semplificazioni inadeguate davanti alla faticosa realtà della democrazia reale.
Come si vede, le mie considerazioni sono «terra terra» rispetto ai grandi discorsi di sistema. Ma, nonostante tutto, credo che gli italiani abbiano imparato che cosa vuol dire «democrazia». E non se la lasceranno portar via da nessuna «oligarchia». Ora si aspettano una classe politica che li sappia governare. Per questo meritano politici e intellettuali che non esasperino oltre misura le differenze e i contrasti fisiologici di una società democratica.
Giustamente noi oggi guardiamo retrospettivamente con riconoscenza ai Costituenti della nostra democrazia che, divisi da visioni politiche ancora più antagoniste delle attuali, hanno saputo trovare con lealtà e rispetto reciproco equilibri di comportamento e di espressione che hanno reso vitale la nostra democrazia, sino ad oggi. Seppure in un contesto diverso, siamo probabilmente davanti a una sfida analoga.
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