I colombiani dicono «no», la pace di Santos sull’orlo del precipizio. Il 2 ottobre 2016 verrà ricordato nella storia della Colombia come il giorno in cui il Paese si risvegliò dal «sogno» di un cammino senza ostacoli per la costruzione della pace e la riconciliazione. Al plebiscito indetto dal governo e accettato anche dalla controparte nei negoziati - la guerriglia delle Farc-Ep - i cittadini colombiani hanno votato con una lievissima maggioranza (50,2% contro il 49,8%) per il «no» alla domanda: «Sostiene Lei l’accordo finale per porre termine al conflitto e costruire una pace stabile e duratura?». Sconcertante il dato dell’astensione: solamente il 37,43% della popolazione votante ha dato la propria preferenza (poco più di 13 milioni su un totale di circa 35 milioni di aventi diritto al voto). Tuttavia, il quorum era stato abbassato notevolmente proprio per far approvare facilmente l’accordo in un Paese dove storicamente l’astensione è altissima (bastavano 4 milioni e mezzo di «sì»).
Nessuno sembrava pensare possibile questo risultato (gli ultimi sondaggi a pochi giorni dal voto davano il «sì» al 66%) e neppure sembravano crederci gli stessi protagonisti della campagna del «no», l’ex presidente Alvaro Uribe Velez (oggi senatore e principale esponente dell’opposizione), l’ex procuratore generale Alejandro Ordoñez (simbolo del conservatorismo colombiano) e l’ex presidente Andrés Pastrana (protagonista di un fallito tentativo di pace con le Farc fra il 1999 e il 2002). Difficile spiegarlo alla comunità internazionale, già pronta a sostenere gli sforzi del post-conflitto dopo aver partecipato all’evento della firma dell’accordo finale, realizzato in pompa magna a Cartagena solamente una settimana fa, il 26 settembre.
Ed è proprio da qui che deve partire una prima riflessione: quanto i colombiani si sono sentiti partecipi di un evento di tale portata, che dava già per scontata l’approvazione popolare e l’inizio di una nuova fase di costruzione della pace?
Con il senno di poi, si può senza dubbio affermare: molto poco. Ha vinto il «no», ma hanno vinto anche lo scetticismo e l’indifferenza (tradotti in astensione) verso un evento che, quantomeno per senso comune, avrebbe dovuto scaldare i cuori, e far accorrere i colombiani alle urne in massa.
Vari elementi entrano qui in gioco, che conviene elencare: a) l’odio profondo e radicato che la popolazione prova verso una guerriglia che troppo tardi ha iniziato a riconoscere le proprie responsabilità e chiedere perdono alle vittime; b) il sostegno forte e deciso di cui gode ancora l’ex presidente Alvaro Uribe in molte zone del Paese e la sua capacità di costruire un discorso politico attorno alla campagna per il «no», trasformandola in un voto a favore sì della pace, ma di una pace diversa (nella sua visione, «più giusta» e più severa con le Farc) di quella contrattata dal governo; c) la mancanza di una pedagogia da parte del governo negli anni dei negoziati (per la paura di bruciarsi politicamente se gli accordi fossero falliti); d) lo sguardo troppo diretto a cercare il sostegno della comunità internazionale e poco attento ai sentimenti della popolazione; e) la scarsa credibilità interna di Santos (l’ultimo sondaggio a settembre mostrava un crollo della popolarità al 36%), con la gran parte della popolazione delle zone più povere del Paese che non ha visto migliorare le proprie condizione di vita in questi anni; f) una pessima campagna per il «sì», supponente, senza un reale sforzo per capire ciò che sentivano e volevano i colombiani nel profondo. L’indifferenza, da un lato, e la mancanza di una fede verso un nuovo futuro, dall’altro, sono forse le vere causa della sconfitta.
In ogni caso, ora bisognerà prestare attenzione soprattutto ai principali protagonisti del «no», rientrati in gioco dopo essere stati lasciati ai margini nel corso dei quattro anni di negoziati a causa della loro contrarietà agli accordi. Opposizione che, in particolare, si è rivolta ad aspetti specifici, come la partecipazione politica dei membri della guerriglia che hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani, o il sistema di giustizia di transizione che determina pene ridotte (e sostituisce il carcere con soluzioni alternative) per chi abbia commesso tali violazioni (sempre che dichiari una verità completa e si impegni a riparare le vittime). Questi sono solo alcuni dei punti che il fronte del «no» vorrà ridiscutere, ma è difficile ora prevedere quale sarà la modalità che il governo e i negoziatori (che restano gli unici attori con il potere e il dovere di trovare una soluzione) adotteranno per riaprire le trattative.
Ancor più difficile prevedere le mosse del comando delle Farc-Ep, stretto fra l’incudine e il martello: costretto da un lato ad accettare un accordo al ribasso per non disconoscere la volontà dei colombiani, e pressato al proprio interno dal rischio di una possibile frammentazione dei propri gruppi di battaglia, che a fatica erano stati convinti a smobilitarsi, lasciare le armi e rientrare alla vita civile ma che ora, in questa situazione di incertezza, potrebbero andare per conto loro.
Le prime dichiarazioni, improntate al politicamente corretto, mostrano una volontà di tutte le parti di trovare una soluzione politica, continuare nel cammino della pace e, soprattutto, mantenere il cessate il fuoco bilaterale e definitivo stipulato lo scorso 24 agosto, il che fa certo tirare un sospiro di sollievo a tutti i colombiani, che temevano un immediato ritorno a un conflitto aperto. Ma dalle successive dichiarazioni, in particolare delle Farc, che sostengono come l’accordo sia blindato giuridicamente per essere stato depositato a Ginevra come «accordo speciale», si possono intuire le grandi difficoltà a cui si va incontro per riaprire i negoziati.
Con il plebiscito però gli aspetti giuridici passano in secondo piano, sono entrati in campo prepotentemente la politica colombiana e il suo protagonista principale, che rimane a tutt’oggi Alvaro Uribe Velez. È indubbio che sia necessario un nuovo accordo politico o – come viene detto in queste ore – un nuovo «patto nazionale», che avvii una rinegoziazione di parte degli accordi. Solo questa soluzione potrebbe consentire di evitare di buttare all’aria quattro anni di difficili trattative e riaccendere la miccia di un conflitto che dopo 52 anni si pensava finalmente – e definitivamente – concluso. Altre opzioni, quali un’assemblea costituente o la rinegoziazione totale degli accordi, sembrano più complesse, rischiose e con tempistiche più lunghe.
L’aspetto forse più triste è che la Colombia non è riuscita a voltare pagina, e che le Farc continueranno per molti anni a essere il centro della disputa e della propaganda politica (e populista) delle varie parti, non potendo così permettere al prossimo governo nel 2018 di dedicarsi a risolvere i problemi profondi che attanagliano il Paese, quali la corruzione, la criminalità organizzata, le violenze contro leader sociali, le diseguaglianze, la precarietà dei sistemi di salute e di educazione, solo per citarne alcuni.
Questioni strutturali che, unite ai temi che si sarebbero affrontati con l’implementazione dell’accordo finale (partecipazione politica, riforma agraria, sostituzione delle coltivazioni illecite, giustizia, verità e riparazione per le vittime e incorporazione dei guerriglieri nella vita civile), avrebbero dato una nuova opportunità al Paese.
Ma che ora verranno oscurate da pretensioni che sembrano più una disputa elettorale che una reale contesa politica su come ci si immagina la nuova Colombia.
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