Dal cappello del presidente del Consiglio europeo, il polacco Donal Tusk, è uscita a Bratislava una roadmap che non sarà mai realizzata: non saranno realizzati evidentemente obiettivi su cui non c’è nessun accordo fra i governi e non saranno rispettate le scadenze secondo cui il Consiglio europeo dovrebbe mettere fine alla «crisi esistenziale» del progetto europeo nelle sue prossime quattro riunioni al vertice (ottobre e dicembre a Bruxelles, gennaio a La Valletta e Roma a marzo).

Molti giornalisti, che evidentemente hanno la memoria corta, hanno dimenticato di ricordare che il Consiglio europeo aveva già adottato altre due roadmap: quella proposta dal presidente del Consiglio europeo – il belga Van Rompuy – nel rapporto dei «quattro presidenti» (Consiglio europeo, Commissione, Eurogruppo, Bce) del dicembre 2012 e quella proposta dal presidente della Commissione europea – il lussemburghese Juncker – nel rapporto dei «cinque presidenti» (Commissione, Consiglio europeo, Eurogruppo, Bce e Parlamento europeo) del febbraio 2015: due rapporti finiti negli archivi del Consiglio e che lo stesso Juncker ha evitato di citare nel suo discorso sullo «stato dell’Unione».

Quei due rapporti avevano l’unico merito di aver indicato con una certa precisione le cose da fare per completare l’Unione economica e monetaria – nella convinzione che dal suo solo completamento dipendesse la salvezza del progetto europeo – ma avevano il difetto di aver suonato il de profundis del metodo comunitario che ha consentito alle Comunità prima, e all’Unione poi, di evolvere fino a quando si trattava di far progredire il progetto europeo nei limiti economici immaginati da Monnet e da Delors.

Proprio Jacques Delors aveva chiarito che il metodo comunitario era un ingranaggio («la méthode de l’engrenage») inossidabile e inarrestabile per garantire l’inevitabile gradualismo del processo europeo fondato sulla conquista – passo dopo passo – del consenso degli Stati, o meglio dei governi, che escludeva il brusco salto verso la dimensione politica federale voluta da Spinelli.

L’ingranaggio di Delors è stato scardinato in questi anni da vari fattori: l’aumento quantitativo e qualitativo delle sfide cui è stata chiamata l’Unione europea; la centralizzazione delle decisioni (o meglio delle non-decisioni) nelle mani dei capi degli esecutivi nazionali, con un’evoluzione perversa del metodo confederale; la conseguente marginalizzazione della Commissione europea (l’«alta autorità» amministrativa sovranazionale europea che, secondo Monnet, avrebbe dovuto prevalere sui governi europei) e del Parlamento europeo; l’assenza di uno spazio pubblico europeo in cui potessero agire partiti politici a dimensione transnazionale, spinti a competere fra loro per la conquista democratica del potere in Europa.

Il fattore principale dello scardinamento, tuttavia, nasce paradossalmente dal fatto che da un lato l’Europa è diventata l’elemento centrale dei dibattiti, ma dall’altro, in mancanza di uno spazio pubblico europeo, prevalgono le spinte delle opinioni pubbliche nazionali; e i capi degli esecutivi agiscono sulla spinta di queste opinioni.

La girandola incoerente degli incontri che hanno preceduto il vertice di Bratislava (fra Merkel, Renzi e Hollande a Berlino e a Ventotene; fra i ministri degli Esteri dei sei Paesi fondatori a Berlino; fra i quattro di Visegrad a Varsavia; fra la Merkel – alla «conquista dell’Est» pochi giorni dopo l’omaggio alla tomba di Spinelli – e, uno dopo l’altro, i capi di dodici governi dell’est e del nord dell’Europa; del «club Euro-Med» ad Atene) non ha che aumentato la frammentazione e approfondito le distanze.

Per uscire dalla crisi c’è chi propone – come Stiglitz – di tornare alla situazione pre-euro, quando c’erano monete forti e monete deboli, e creare l’euro dell’area ricca e l’euro dell’area povera (altrimenti detti del nord e del sud), facendo finta di ignorare che la conseguenza di questo doppio sistema sarebbe l’ulteriore arricchimento dei ricchi, l’impoverimento dei poveri e la moltiplicazione delle valute, nell’illusione di ciascuno che ciò rafforzerà la competitività delle economie nazionali.

C’è poi chi propone di riprendersi le sovranità nazionali perdute nel sistema centralizzato dell’Unione, o attraverso una modifica dei Trattati, come propongono i Paesi di Visegrad, o attraverso la disobbedienza e la violazione delle regole europee. Lo chiede il premier ungherese Orban ai suoi elettori per opporsi alle decisioni europee sull’immigrazione. Lo chiede chi ritiene che, nella presunta impossibilità di cambiare le troppo rigide regole europee, la via della difesa degli interessi nazionali o settoriali passi attraverso la sottrazione volontaria dai vincoli dell’Unione, a cominciare dal Patto di stabilità e dal fiscal compact, aprendo la porta all’anarchia europea.

Qualcuno ricorderà che, nel momento più difficile della crisi greca, sinistre radicali e destre nazionaliste erano corse in soccorso del popolo greco invitando a rispettare la «volontà democratica espressa dagli elettori greci», ignorando però il fatto che, secondo la stessa logica, bisognasse rispettare la volontà democratica degli elettori tedeschi che avevano rinnovato la loro fiducia alla politica del rigore di Angela Merkel o agli elettori di Orban e così via, con una crescente e pericolosa spirale di conflittualità fra i popoli.

Qualcuno ha anche suggerito di definire il sistema europeo «demoicrazia», ovvero il potere attribuito ai popoli mentre – saggiamente – il progetto Spinelli e poi il Trattato costituzionale parlano di un’Unione di Stati e di cittadini, con un sistema che dovrebbe definirsi di «politiscrazia», e cioè il potere attribuito ai cittadini europei.

Se si vuole scardinare il sistema europeo emerso dalla centralizzazione del potere degli esecutivi, occorre abbandonare le velleità anarchico-istituzionali di chi propone agli esecutivi (e ai Parlamenti nazionali) di disobbedire alle regole europee, annullando il vertice straordinario di Roma del 25 marzo 2017 – che, a sessant’anni dai trattati del 1957, potrebbe essere chiamato non a celebrare ma a commemorare. Il vertice di marzo dovrebbe più utilmente essere sostituito con un’ampia mobilitazione di innovatori europei, di chi trae vantaggio dalla dimensione europea o paga i costi della non-Europa non solo a Roma ma in cento città europee, contemporaneamente e virtualmente collegate insieme.

Allo stesso tempo, il Parlamento italiano dovrebbe attuare la decisione, presa alla vigilia della presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea nel 2014, in cui si proponeva di convocare a Roma delle «assise interparlamentari sull’avvenire dell’Europa» come quelle che si svolsero a Montecitorio nel novembre 1990, alla vigilia della Conferenza intergovernativa da cui nacque il Trattato di Maastricht. Dall’incontro ideale degli innovatori e dei Parlamenti, e non da un ennesimo vertice degli esecutivi, deve avviarsi un processo costituente per un’altra Europa.