Ormai mi capita di rado di ritagliare e conservare fisicamente un articolo di giornale: di solito tengo quelli più interessanti in un archivio del computer. Ma non ho resistito a quella vecchia abitudine per un articolo di Sergio Fabbrini sul «Il Sole - 24 Ore» dell’11 settembre scorso: Le élite del No e il futuro dell’Italia. Il ragionamento di Fabbrini non fa una grinza. Parte ricordando ciò che dovrebbe essere ovvio, ma non lo è: che un referendum su questioni politiche complesse (come l’adesione all’Unione Europea o la riforma costituzionale) «non è lo strumento per far emergere il volere del popolo, inteso come un’entità unitaria, distinta dalle élite politiche. Al contrario, il referendum si è dimostrato regolarmente lo strumento per avviare un regolamento dei conti all’interno delle élite stesse». Dopo aver addotto numerosi esempi a sostegno di quanto ha affermato – tutti tratti dalla recente esperienza europea – ne fa seguire la recisa conclusione: «la politica è sempre uno scontro tra élite, mai tra élite e popolo». Questo vale sia per le élite dei partiti tradizionali, sia per quelle di recente formazione, per imprenditori politici che percepiscono un distacco tra élite tradizionali e opinione pubblica e lo dirigono verso soluzioni radicali e quasi sempre illusorie: i movimenti cui è attribuita l’etichetta elusiva di «populisti». E Fabbrini, da questo incipit, fa seguire diverse conclusioni, di cui vorrei qui segnalare la principale.
«Il referendum, proprio per la sua natura binaria relativa a una determinata proposta (Sì o No) consente alle élite negative un vantaggio posizionale rispetto a quelle positive. È molto più facile fare una campagna contro che una a favore. Tant’è vero che quando le élite negative vincono, e quasi sempre vincono nelle arene referendarie, il risultato è lo stallo se non la confusione». E qui seguono altri esempi. Donde il giudizio conclusivo: «il referendum deresponsabilizza gli oppositori, che possono mobilitarsi per far votare contro la proposta in discussione senza essere obbligati a precisare con che cosa la sostituirebbero».
In un articolo dell’aprile scorso, e sempre con riferimento al referendum costituzionale, mi riferivo anch’io allo stesso fenomeno di deresponsabilizzazione, notando che il legame principale che unisce le opposizioni al referendum è l’obiettivo di far cadere o azzoppare il governo. «L’unico legame, perché poi, su qualsiasi linea politica, i loro dissensi sarebbero insormontabili: ve lo immaginate un governo sostenuto da una maggioranza in cui ci siano esponenti della sinistra radicale e Forza Italia, Lega e 5 Stelle, tutti strenui oppositori del referendum? Una maggioranza “contro” non è impensabile; è una maggioranza “per”, diversa da quella che sostiene il governo in carica, che non si riesce a intravvedere».
Facciamo un passo oltre e veniamo a un problema che presenta alcune somiglianze, ma anche evidenti differenze, con quello del referendum: il ballottaggio tra le due liste più votate, previsto dalla legge elettorale approvata dalla Camera, il cosiddetto Italicum, nel caso che nessuna superi il 40% dei consensi (ciò che è assai probabile). Questo è il cuore della legge, ancor più del ballottaggio di lista invece che di coalizione: è infatti quello che esprime il vecchio sogno veltroniano del partito «a vocazione maggioritaria», il sogno di un governo con una maggioranza coerente (idealmente di un solo partito), disposta a seguire il premier nel suo disegno di riforma del Paese. Anche questa decisione, da ultimo, si presenta come un giudizio secco: Lista A o Lista B, invece di Sì o No.
Nel contesto italiano le obiezioni politiche al ballottaggio non mancano, tre su tutte: a) l’appartenenza a un lista o anche allo stesso partito non significa la leale adesione al programma del premier (si pensi ai feroci conflitti interni al Partito democratico); b) gli elettori di liste o partiti sconfitti nel primo turno difficilmente sono in grado di valutare autonomamente la minor distanza tra i programmi di A e B rispetto a quelli del partito che avevano votato al primo turno e l’influenza di élite politiche negative, come le chiama Fabbrini, di pure «maggioranze contro», è molto forte, come si è visto nelle recenti elezioni comunali; c) resta comunque il fatto che un partito potrebbe ottenere la maggioranza dei seggi avendo ottenuto, al primo turno, un consenso molto inferiore a quello che gli consentirebbe di vantare una convincente rappresentanza dei votanti. In astratto, e valutando il problema sotto il solo profilo della teoria democratica, D’Alimonte e altri sostengono che la somma delle prime e delle seconde preferenze è una risposta accettabile al problema del contemperamento tra rappresentatività e governabilità. Ma quelle del secondo turno sono preferenze deboli, e questo potrebbe creare seri problemi a un governo che deve prendere decisioni difficili e impopolari.
Gran parte del ceto politico e intellettuale tradizionale è terrorizzato dalla possibile vittoria del Movimento 5 Stelle al ballottaggio (e una parte anche dalla vittoria di Renzi, dell’ «uomo solo al comando», come si va ripetendo sulla base di una critica alla riforma costituzionale difficilmente condivisibile): le pressioni esercitate sulla Corte affinché decida secondo le convenienze politiche di chi le esercita immagino siano fortissime. Probabilmente il 4 ottobre la Corte rinvierà il problema, in attesa del risultato del referendum, e questa mi sembrerebbe una decisione saggia, che concede ai giudici delle leggi tempi di riflessione e valutazione più distesi. La Corte non è un organo politico e la sua neutralità e il suo carattere super partes sono aspetti centrali del suo ruolo in uno Stato di diritto: soggetta a obblighi e pressioni contrastanti la decisione sarà comunque difficilissima ed esporrà in ogni caso la Corte a forti critiche.
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