Fra le tante stranezze che compaiono nella propaganda contro la riforma costituzionale sottoposta a referendum, una è piuttosto singolare: il nuovo trasporto per un sistema monocamerale. Viene detto che se non si ha un Senato eletto direttamente dal popolo e con pari poteri rispetto alla Camera allora è meglio abolirlo, tanto il monocameralismo funziona.
Se è ancora possibile sottoporre all’opinione pubblica un ragionamento anziché uno slogan, mi permetto di richiamare le ragioni storico-costituzionali che stanno alla base del bicameralismo, ragioni che non mi pare abbiamo perso la loro validità.
La spiegazione classica è che nella formazione della decisione politica (le leggi, ma non solo) è bene che concorrano due istanze: la volontà del popolo espressa attraverso il meccanismo della sua verifica attraverso le elezioni; una volontà della nazione, cioè del corpo politico fin dove possibile rappresentato fuori delle competizioni di parte, capace appunto di sottrarre la decisione politica alla semplice dinamica delle lotte fra partiti (per il resto mutevole a seconda dei momenti in cui si va al voto).
Si capisce che messa in questi termini la questione rischia di apparire come la ricerca dell’araba fenice, visto che non è poi semplice creare una seconda Camera con quei requisiti: che li possegga la «nobiltà» non lo crede più nessuno, che ci siano meccanismi che garantiscono per la seconda Camera la selezione dei «migliori», spiriti eletti capaci di agire sopra le passioni politiche, è altrettanto improbabile.
Tuttavia la difficoltà di trovare la soluzione non annulla l’esistenza del problema: è saggio prevedere che il percorso di creazione delle leggi preveda un doppio controllo e che il secondo controllo sia di tipo diverso da quello che nasce dalla rappresentanza delle dinamiche partitiche.
La tanto vituperata riforma Renzi-Boschi affronta in una maniera accettabile questo dilemma. Sottrae il Senato al pieno domino delle dinamiche partitiche attraverso vari meccanismi: 1) non gli conferisce il potere di entrare nel gioco politico della fiducia/sfiducia al governo, per cui viene meno l’incentivo alle critiche strumentali verso l’assetto governativo vigente; 2) lo forma attraverso un complesso meccanismo per cui esso non si rinnova in parallelo con la Camera, ma lo fa in corrispondenza delle varie elezioni regionali (il che significa che si rinnova di continuo e in tempi diversi); 3) lo lega alle dinamiche di formazione delle classi politiche a livello regionale, cioè in modo non coincidente con le dinamiche nazionali che dominano nei partiti per la gestione delle elezioni alla Camera dei deputati.
Si obietterà che però con questo si torna alla possibilità di un uso del potere concorrente del Senato per allungare i tempi di approvazione delle leggi, ma questo non è vero, perché l’articolo 70 del nuovo testo costituzionale prevede che la procedura di intervento del Senato su una legge approvata dalla Camera debba risolversi in 40 giorni, che non è certo un tempo per fare ammuina. Il fatto poi che la Camera possa non tenere conto delle modifiche richieste dal Senato, approvando in via definitiva il testo da essa licenziato così com’era inizialmente, disincentiva ovviamente interventi puramente «politici» nel senso volgare del termine.
Come si vede il procedimento previsto dalla riforma salva in maniera ragionevole la natura del Senato come «Camera di riflessione» secondo l’antico concetto del costituzionalismo storico (aggiungendoci anche quanto previsto all’art. 71). A questo compito peraltro ne aggiunge un altro, che non ci sembra preso in sufficiente considerazione nelle polemiche in corso: «valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni» (art. 57). Anche questo è un compito da Camera di garanzia e può avere impatto notevole proprio perché esercitato da un organo che non ha un’origine diretta nelle tensioni politiche presenti in un certo momento, quello elettorale nazionale per la Camera.
Si obietta che tutto questo è impossibile per senatori a «mezzo tempo», ma l’obiezione è di carattere emozionale e non istituzionale. Se si prendesse sul serio una simile obiezione si dovrebbe per esempio sostenere che presidente del Consiglio e ministri che si occupano di un numero molto vasto di tematiche (anche notevolmente complesse), per non dire del presidente della Repubblica, non possono essere in grado di far fronte a questa enormità di temi e problemi. In realtà ovviamente non saranno i singoli senatori a dover istruire nel dettaglio gli interventi di loro competenza, perché questo sarà il compito di una struttura di supporto che già esiste e che è di alto livello. I senatori avranno il compito di orientare il lavoro dei funzionari e di trarne le conclusioni (in più ogni senatore può farsi assistere nei suoi compiti in fase di istruttoria da consulenti di sua fiducia). Un’attività compatibile con la presenza in altri consessi. Del resto da sempre, tanto per dire, deputati e senatori sono molto attivi nelle attività di partito che sono, come si usa dire, time consuming non meno di quelle nei consigli regionali e nei comuni.
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