Il disastro di Cameron e la doccia gelata di Brexit. È stato buon profeta chi ha definito David Cameron un apprendista stregone dopo la decisione di mantenere la promessa, fatta nel 2015 in campagna elettorale, di chiedere ai sudditi di Elisabetta II se volevano o meno il divorzio dall’Unione europea. Cameron era certo di ricavarne un buon vantaggio in termini di popolarità, garantendosi magari anche un terzo mandato. E invece ha combinato un disastro di proporzioni epiche, con il Regno Unito fuori dall’Europa e lui da Downing Street. Un risultato straordinario per un premier che sarà ricordato tra i peggiori del dopoguerra.
Ma prima di passare la mano, Cameron si ritrova con un problema non piccolo da risolvere: la consultazione del 23 giugno aveva un valore consultivo e adesso serve una lettera approvata dal governo in prima battuta, e poi dal Parlamento, per dire in maniera ufficiale agli altri partner europei che il Regno Unito ha deciso di uscire. Peccato che il premier non abbia all’interno dell’esecutivo e dell’aula di Westminster una maggioranza in favore di Brexit. Lui stesso era alla testa del fronte Remain e dunque dovrebbe votare, sia pure in maniera strumentale, contro se stesso. Altrettanto sarebbero costretti a fare molti ministri e centinaia di deputati conservatori e laburisti. Ecco perché ha chiesto tre mesi di tempo prima di lasciare e vuole che a risolvere il problema sia il suo successore.
Nel frattempo, anche il Labour sta andando in pezzi: Corbyn ha cacciato sabato notte dal governo ombra il responsabile della Sanità, colpevole di aver espresso critiche sul segretario, domenica mattina si è dimessa la titolare dell’Istruzione seguita a breve da altri undici colleghi e colleghe che pure in passato avevano sostenuto l’anziano segretario. Le prossime elezioni generali, che per legge non si possono tenere prima del 2020, potrebbero vedere fronteggiarsi il tory Boris Johnson e Sadiq Khan, il nuovo sindaco di Londra, da molti pronosticato futuro leader di un Labour che ha in parte responsabilità per Brexit, con un Jeremy Corbyn ex euroscettico convertitosi alla causa di Remain in maniera riluttante e con una parte di responsabilità nell’esito del referendum, visto lo scarso entusiasmo mostrato durante le settimane che hanno preceduto il voto.
A urne chiuse, sono molte le contraddizioni che balzano agli occhi a segnalare l’esistenza (e la difficile convivenza) di anime molto diverse tra loro entro i confini nazionali. Da una parte la Londra cosmopolita, dove poco meno di trecento etnie convivono in maniera abbastanza pacifica, i matrimoni misti sono ormai da tempo la norma; la Londra motore finanziario dell’economia inglese, centro di innovazione tecnologica e culturale, ancora in grado di imporre gusti, modi e tendenze, di attrarre giovani da ogni parte del pianeta (molti dei quali in lacrime nella metropolitana e negli uffici la mattina del 24 giugno, dopo il risultati referendari). Ma tra i sudditi di Elisabetta ci sono anche milioni di individui con un basso livello di scolarità, che hanno timore di tutto ciò che ai loro occhi appare straniero, spesso feriti dalle conseguenze della crisi economica, minacciati in quella che ritengono essere una immaginaria identità nazionale costruita in maniera immutabile molto tempo fa. Per questi uomini e per queste donne, spesso residenti in zone rurali o in piccole cittadine di provincia, «back», ovvero «indietro», ha avuto un suono incantevole, un significato magico. Gli over 65, del resto, hanno in larga maggioranza votato per il Leave, condizionando così il futuro dei loro figli e dei loro nipoti. Mentre nella fascia under 35 è stato il Remain a imporsi largamente.
C’è poi l’Inghilterra del nord, che comprende soprattutto lo Yorkshire (terra della parlamentare Jo Cox, assassinata da un fanatico di destra) e le contee dove a inizio Ottocento ebbe origine la rivoluzione industriale. Aree a saldissima maggioranza laburista nelle elezioni politiche, che questa volta hanno scelto contro le indicazioni del partito. Contee di rapida espansione in epoca di crescita durante la parte iniziale dei governi Blair sul finire del secolo scorso, in seguito hanno subìto le conseguenze dei processi di fusione in ambito planetario, quando le fabbriche un tempo di proprietà britannica sono passate agli asiatici, hanno riducendo gli organici o addirittura chiudendo i battenti. In queste zone i numeri degli occupati nel manifatturiero appaiono in caduta libera e i lavoratori si sono vendicati sposando in maniera irrazionale la causa Brexit, indifferenti agli inviti provenienti dalla debole campagna del partito laburista.
L’ultima, e forse più spinosa questione in prospettiva futura, riguarda la Scozia e le contee dell’Irlanda del Nord. Qui ha prevalso ovunque il favore nei confronti di Bruxelles e ora si sta rafforzando la rabbia verso chi li ha spinti fuori dall’Europa. In Scozia nel 2014, al referendum indipendentista lanciato dall’allora premier Alex Salmond, avevano prevalso sia pur di stretta misura i contrari all’addio a Londra. Ora, nonostante tutte le circoscrizioni abbiano scelto in blocco di opporsi al divorzio con Bruxelles, la Scozia si ritrova fuori dall’Unione. Dopo lo spoglio nel Regno Unito, Salmond in un’intervista ha subito accennato un nuovo referendum per l’indipendenza da Londra, la cui richiesta scatterà non appena il successore di Cameron inizierà i negoziati previsti dai trattati per uscire definitivamente dall’Unione. «Noi vogliamo rimanere in Europa», ha detto, «anche se questo non significherà che adotteremo l’euro». Dello stesso avviso Nicola Sturgeon, la donna che gli è succeduta alla testa del governo e dello Scottish National Party. Sturgeon ha poi rincarato la dose: «il Paese ha votato in modo chiaro, senza equivoci, per la permanenza nella Ue e accolgo con favore questo sostegno al nostro status europeo che appoggerò in ogni maniera». Animi accesi contro gli inglesi anche in Irlanda del Nord. Qui si invoca un altro referendum, stavolta per la riunificazione delle contee dell’Ulster con una Dublino che deve la rinascita dalla crisi ai fondi dell’Unione. «Con l’uscita della Gran Bretagna, l’Irlanda dovrebbe esprimersi per la propria riunificazione e restare per intero europea», ha detto il vicepremier dell’Irlanda del Nord, Martin McGuinness, leader del partito nazionalista. Il Regno Unito, insomma, potrebbe a breve polverizzarsi, cancellando una storia plurisecolare. Un’ulteriore responsabilità che gli studiosi in futuro attribuirebbero a David Cameron, premier dimissionario la cui imbarazzante debolezza di visione politica si è manifestata negli ultimi mesi in tutta evidenza agli occhi del mondo intero.
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