La leadership scozzese nel post-Brexit. Una delle questioni che Brexit ha fatto immediatamente riemergere, come era ampiamente prevedibile, è quella scozzese. Un’analisi del voto mostra che una maggioranza solida ha optato, in tutte le circoscrizioni della Scozia, per rimanere nell’Unione europea. Le percentuali variano, secondo una logica non molto diversa dal resto del Regno Unito. Le zone più «internazionalizzate» e quelle più benestanti hanno votato con percentuali sempre superiori ai due terzi per il Remain. Il dato di Edimburgo è eloquente: capitale della Scozia, abitata, in particolare nel centro della città, da una borghesia agiata, ha espresso un sostegno massiccio per l’Unione europea: quasi 75%, ossia tre su quattro votanti. Inevitabilmente, il risultato finale della consultazione a livello britannico è stato molto deludente per la Scozia. Tale frustrazione è stata espressa dal First Minister Nicola Sturgeon nei termini di un inaccettabile risultato dal punto di vista democratico. In altre parole, il governo del Regno Unito viene accusato di non essere più in grado di tutelare gli interessi primari e la volontà democratica delle componenti essenziali del Regno stesso, vale a dire, le sue nazioni.
In reazione all’esito del voto del 23 giugno, sabato è stata organizzata una riunione di emergenza del governo scozzese per prendere in esame le opzioni che sono a disposizione dell’esecutivo per proteggere gli interessi scozzesi in Europa. La reazione pronta dell’esecutivo scozzese ha mostrato come la leadership politica sia, oggi, più forte ad Edimburgo che a Londra. In tal senso, è opportuno notare che assieme alla preparazione di una nuova legislazione che preveda un altro referendum sull’indipendenza, Sturgeon abbia manifestato la volontà di intavolare subito una negoziazione per mantenere la Scozia nell’Unione europea e abbia promesso l’istituzione di una commissione di esperti che valutino alcuni controversi aspetti giuridici, economici e diplomatici legati al Brexit. Interpretata in maniera letterale, la posizione espressa dal governo scozzese dopo la prima riunione post-Brexit sarebbe quella di mantenere uno status speciale nell’Unione europea senza dover necessariamente uscire dal Regno Unito. Pertanto, il dialogo con gli Stati membri e le istituzioni europee pare orientato alla possibilità di trovare una soluzione di compromesso per trovare una formula che renda la relazione dell’Ue con la Scozia, per così dire, speciale. Se così fosse, è chiaro che il percorso si presenta molto complicato per la Scozia, visto che i trattati sembrano escludere questa possibilità. Allo stesso tempo, come la gestione della crisi euro ha dimostrato, non sempre la lettera dei trattati prevale sulla loro interpretazione in chiave funzionale all’integrazione.
Non stupisce, in uno scenario del genere, che molti commentatori si siano affrettati a concludere che il voto per il Brexit rappresenti anche la fine del Regno Unito. Alla luce del notevole sostegno all’Unione europea registrato in Scozia e delle difficoltà per il governo scozzese di negoziare un compromesso ad hoc con le istituzioni europee, questa parrebbe una deduzione di buon senso. Innanzitutto, si tratterebbe di una soluzione non invisa a parte dell’elettorato scozzese. Inoltre, la possibile uscita dal Regno Unito potrebbe poi essere mitigata da una serie di accordi che rendano più fluide le relazioni commerciali fra Inghilterra, Galles e Scozia, sul modello dell’attuale accordo con l’Irlanda.
Tuttavia, appare necessario introdurre una nota di cautela a dispetto delle dichiarazioni recenti di Sturgeon. Al momento, la possibilità di indire un’altra consultazione dipende da almeno due fattori. Il primo è che lo Snp (il partito nazionalista scozzese) non può permettersi di perdere una seconda volta poiché una ulteriore sconfitta su un tema che rappresenta la sua ragion d’essere segnerebbe l’inizio del suo declino. Pertanto, prima di organizzare un nuovo referendum, lo Snp accerterà che la vittoria sia quasi scontata e non è chiaro che i flussi elettorali attuali segnalino la volontà certa di uscire dal Regno Unito. Il calo del prezzo del petrolio consiglia maggiore prudenza e, in effetti, i discorsi sul modello norvegese che tanta presa sull’immaginario dell’elettorato scozzese avevano avuto in occasione del voto sull’indipendenza del 2014 hanno perso buona parte della loro forza persuasiva. A questa altezza si presenta il secondo fattore che potrebbe mantenere a distanza una nuova consultazione. Si tratta di capire in quale direzione procederà l’Unione europea. Se altri Stati membri, come la Danimarca, l’Olanda e la Svezia, decideranno di rinegoziare la loro appartenenza all’Unione, il progetto di integrazione europea potrebbe essere ridefinito (con Francia, Germania, ed Italia come attori principali) in maniera più netta e più incisiva, in particolare attorno ai due fuochi dell’euro e dell’area Schengen. Se così fosse, non è per niente certo che il governo scozzese opterebbe per lasciare il Regno Unito ed entrare in quel tipo di Unione europea. Il silenzio sull’eventuale adozione dell’euro che accompagnò la campagna elettorale per l’indipendenza nel 2014 lascia pensare che una scelta fra rimanere in un’unione basata sulla sterlina o entrare in una costruita sul governo dell’euro sarebbe tutt’altro che scontata. L’andamento delle rispettive valute nelle prossime settimane potrebbe sciogliere alcuni di questi dubbi.
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