La rendita è una patologia letale del sistema economico italiano. Fagocita le risorse e le confina a ruolo passivo a scapito delle attività produttive, come la crisi sta mostrando. Un’anomalia che la mentalità italiana, alimentata da una popolazione di piccoli proprietari, da questo punto di vista molto conservatori, non vuole affrontare. Foriera della divaricazione delle condizioni economiche e della concentrazione della ricchezza.
Perseverare in questo scompenso producendo ulteriori immobili è pericoloso, significa aumentare l’offerta che, già sovradimensionata, ha portato al deprezzamento dei valori di un terzo da quelli pre-crisi, una perdita patrimoniale ingente per i cittadini italiani, tanto più per quelli indebitati con mutui.
Un eccesso produttivo che è oltretutto avvenuto in un regime fiscale che prevede oneri concessori bassissimi, un privilegio accordato ai costruttori ai danni della città pubblica. Con la bolla immobiliare, mentre i prezzi delle case aumentavano del 60% e i ricavi d’impresa schizzavano di quasi l’82% (incremento tra 1997 e 2007, Banca d’Italia, 2015), al confronto gli oneri rimanevano irrisori e così le capacità di spesa delle amministrazioni locali già prosciugate dai tagli.
Anche in Emilia-Romagna da più di un ventennio assistiamo a una produzione edilizia sovrabbondante. Un eccesso che si è scontrato con l’esaurimento della domanda di investimento e della propensione al miglioramento della condizione abitativa dei ceti medio-alti che avevano sostenuto il mercato. E ha procurato lo sperpero di risorse non riproducibili (suolo e materiali) per la realizzazione di fabbricati inutilizzati che sarà difficile e oneroso riciclare, mentre sull’altro versante sociale stride l’emergenza abitativa.
Dal 1977, le attività edilizie sono soggette a un contributo di costruzione (composto dalla quota costo di costruzione e dagli oneri di urbanizzazione) che i comuni devono utilizzare per realizzare le opere di urbanizzazione, che entrano così nel patrimonio pubblico. Dal 2005 le leggi finanziarie hanno reso possibile impiegarne una quota nelle spese correnti, sottraendole agli investimenti.
A livello nazionale, come ha osservato recentemente scrive Roberto Camagni, tra il 2004 e il 2012 gli investimenti della totalità delle amministrazioni locali sono calati in media del 34% e nei comuni con più di 60 mila abitanti) sono diminuite addirittura del 63%. Si spiega in questo modo il disastroso stato funzionale e manutentivo delle nostre città.
In Emilia-Romagna le entrate generate dal contributo di costruzione sono costantemente aumentate (del 30% tra il 2002 e il 2008, gli anni immediatamente pre-crisi). Ma tale incremento deriva esclusivamente alla crescita dei volumi edificati, la quota contributiva infatti era ed è rimasta sino ad oggi sostanzialmente ferma a quella stabilita dalla Regione nel 1998.
L’Emilia-Romagna impone oneri di urbanizzazione che sono tra i più bassi d’Italia. Camagni, ragionando di grandi comuni e di costo al mq, stima a livello nazionale un ammontare medio variabile tra 100 e 150 euro/mq, con Bologna sotto la media (98 euro/mq), Milano a quasi il doppio (244 euro/mq), Firenze a quasi il quadruplo (480 euro/mq).
Dal 2008 al 2011, in regione, circa il 40% del contributo di costruzione è stato spostato dagli investimenti alle spese correnti. Tuttavia, negli anni più recenti i comuni emiliani, con decisione autonoma, hanno scelto di ridimensionare in maniera molto forte tale travaso, abbassandolo fino all’8% di media regionale (2013). Un dato interessante che mostra una nuova attenzione dei comuni, dettata per certo dall’urgenza, per le spese in conto capitale, che vanno cioè a conformare i beni collettivi su cui poggia la città pubblica.
La Regione ha operato a questo riguardo una scelta fiscale di difficile comprensione, non ha provveduto alla attualizzazione degli oneri di urbanizzazione come invece, a rigor di norma, avrebbe dovuto accadere. L'assemblea legislativa, che nel 1998 ha varato norme che ne prevedono l'aggiornamento ogni cinque anni, non ha mai proceduto alla rivalutazione prescritta. Il contributo oggi applicato è ancora calcolato su un indice revisionale fermo a quasi vent’anni fa, derivato dai prezzi delle “opere edilizie” rilevati dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che tuttavia nel frattempo, seguendo l'andamento del mercato, è quasi raddoppiato (Dcr 4/3/1998, n. 849 e n. 850).
Una decisione di cui è difficile capire la motivazione. Il decennio 1998-2008, che avrebbe dovuto coincidere con due occasioni di aggiornamento degli oneri concessori, è stato il periodo d’oro della crescita immobiliare, con transazioni aumentate del 63% e costi per l’acquirente finale aumentati del 60%; ma chi ne ha tratto vantaggio sono stati i soli costruttori, che in quel periodo non avevano certo bisogno di incentivi, mentre le entrate pubbliche continuavano a calare. Si è insomma prodotta in parallelo una progressiva e sostanziosa diminuzione di risorse per la realizzazione delle opere di pubblica utilità.
Una scelta che in Emilia-Romagna ha comportato una perdita di entrate comunali pari a più di 500 milioni di euro.
Il dato emerge dalla simulazione riprodotta nel grafico, in cui vengono riportati i valori relativi agli oneri di urbanizzazione inscritti nei bilanci dei comuni e, a confronto, l’elaborazione dell’ammontare ipotetico se gli aggiornamenti, calcolati con i parametri prescritti, fossero stati applicati nelle date fissate per legge.
Una cifra che, benché spalmata in 15 anni, è tutt’altro che irrisoria. Per avere un termine di paragone, si consideri che nel bilancio regionale di previsione 2016 sono accantonati ad esempio 20 milioni per progetti di riqualificazione urbana dei comuni della costa; 17 milioni per le reti infrastrutturali, la manutenzione delle strade e reti ferroviarie; oppure che mancano 600 milioni per completare la ricostruzione post-sisma, come la Regione di recente ha dichiarato.
La cifra negata ai comuni è ingente, in una fase in cui faticano a garantire servizi e manutenzioni. E dunque perché il sacrificio di 500 milioni? Se queste risorse fossero arrivate ai comuni anziché donate ai costruttori, l’attività edilizia si sarebbe più armonicamente divisa tra produzione privata e opere pubbliche, evitando quelle storture che oggi saltano agli occhi.
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