I francesi e la riforma del lavoro. Durante la sua permanenza all’Eliseo l’ex presidente Sarkozy amava ripetere: «Ormai, quando c’è uno sciopero in Francia, non se ne accorge più nessuno». Era evidentemente una boutade, ampiamente smentita dagli eventi.
Nel corso dell’ultimo decennio in un’Europa colpita dalla recessione economica ma nondimeno caratterizzata da un certo attendismo, la Francia è stata il Paese in cui la conflittualità sociale è riesplosa con maggiore frequenza: dalle manifestazioni del 2006 contro il Contratto di primo impiego di Villepin a quelle del 2010 contro la riforma delle pensioni targata Sarkozy, sino all’attuale mobilitazione contro il progetto di legge El Khomri (dal nome della giovane ministra del Lavoro francese).
Questa eccezione francese della protesta non è certo riconducibile a un particolare attivismo delle organizzazioni sindacali (il tasso di adesione ai sindacati in Francia è – insieme con Turchia ed Estonia – il più basso dell’area Ocse, inferiore all’8%) quanto piuttosto a un mix tra un diffuso malessere sociale, la tradizione di un Paese storicamente caratterizzato da rotture politiche e fiammate sociali e che spesso ha preferito l’irruenza della piazza a soluzioni negoziate. A questi fattori occorre sommare l’eredità di un particolare attaccamento dei francesi al ruolo dello Stato regolatore dell’economia.
In Francia non siamo di fronte alle manifestazioni più imponenti degli ultimi anni né tantomeno alle più coese: sia quelle del 2006 che del 2010 erano state più partecipate e avevano visto il fronte sindacale unito, mentre oggi la Cfdt, seconda organizzazione sindacale del Paese, ha preso le distanze dall’oltranzismo della Cgt. Se la mobilitazione appare in flessione dopo i picchi toccati tra fine marzo e inizio aprile, nelle ultime due settimane ha conosciuto un parziale rilancio estendendosi al settore dei trasporti – complice lo sciopero lanciato dalla Sncf per rivendicazioni interne – alle piattaforme petrolifere e a 16 centrali nucleari su 19.
Oggetto della contestazione, nelle piazze e in Parlamento, sono sia il metodo sia il merito della riforma. Relativamente al primo si critica il ricorso all’articolo 49-3 della Costituzione (che permette un’adozione automatica del provvedimento, escludendo il voto parlamentare, a condizione che non sia approvata una mozione di censura) utilizzato a maggio dal governo Valls per approvare il progetto di legge in prima lettura all’Assemblea nazionale e contrastare la fronda interna alla maggioranza. Una forzatura, peraltro già attuata a tre riprese nel 2015 per approvare la legge sulle liberalizzazioni promossa dal ministro dell’Economia Macron.
Sui contenuti i critici ritengono che il progetto di legge sia troppo squilibrato in favore della controparte imprenditoriale, in particolare perché privilegia gli accordi aziendali rispetto ai contratti di categoria e perché allenta i vincoli sui licenziamenti in caso di “difficoltà economiche” dell’azienda.
I sindacati contano su un iter legislativo ancora lungo (il testo deve ancora essere discusso al Senato, in vista del voto a fine giugno, cui seguirà una nuova staffetta tra le due camere, prima dell’approvazione definitiva a fine luglio) e ricordano la vicenda del Contratto di primo impiego, che nel 2006 era stato adottato, votato e successivamente ritirato dall’esecutivo (allora di centrodestra), su pressione dello stesso presidente Chirac, per le eccessive polemiche che aveva suscitato, ad un anno dalle elezioni presidenziali (poi vinte da Sarkozy), esattamente come adesso.
Lo spettro per la Confédération générale du travail invece è quello del 2010, quando il fronte sindacale coeso si era mobilitato massicciamente contro la riforma delle pensioni, salvo poi sgretolarsi di fronte alla decisione di Sarkozy di fare ricorso allo sblocco forzato dei depositi di carburante e alla fermezza del governo nell’approvare la riforma. L’ombra di questa cocente sconfitta aleggia oggi sulla mobilitazione, meno convinta di allora, contro la legge sul lavoro.
Ma l’eventuale tenuta del governo sulla riforma rischia di trasformarsi in una vittoria sulle macerie della sinistra. Il Partito socialista, già delegittimato dal record d’impopolarità del presidente Hollande, sconfitto in tutte le elezioni intermedie dal 2012 a oggi e in preda all’ennesima guerra intestina, pare prepararsi a un lungo periodo di opposizione piuttosto che serrare i ranghi in vista delle presidenziali del prossimo anno.
La destra repubblicana osserva brindando a queste divisioni e i suoi principali candidati – Sarkozy, Fillon e Juppé in testa – annunciano in caso di ingresso all’Eliseo vere e proprie “terapie choc” per rilanciare un Paese bloccato. Una serie di provvedimenti (dall’abolizione delle 35 ore all’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni, passando per l’abolizione dell’imposta di solidarietà sul patrimonio) che metteranno rapidamente in soffitta la legge sul lavoro che da mesi sta lacerando la maggioranza e spaccando la Francia.
Le divisioni della sinistra e il vento di antipolitica che spira con forza non garantiscono tuttavia ai Repubblicani (ex Ump) la conquista dell’Eliseo nel 2017, dal momento che – e non va mai dimenticato – il partito che negli ultimi anni ha mostrato di capitalizzare meglio il rabbioso malessere sociale dei francesi è senz’altro il Front National “normalizzato” da Marine Le Pen.
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