Peronista, populista, pauperista, integralista, antiliberale. Così Loris Zanatta definisce papa Bergoglio nella sua dura requisitoria apparsa sul numero ultimo del «Mulino», in un articolo di cui mi colpisce tra l’altro la scarsa capacità di cogliere il significato universale del pontificato bergogliano, schiacciato sull’Argentina cattolica populista da Zanatta pregevolmente studiata, ma le cui analisi applica direttamente al papa.
Nella sua carrellata impressionistica, l’autore insegue pochi aneddoti, conta la quantità di volte in cui Bergoglio pronuncia la parola «popolo», elenca il numero delle udienze concesse, cita frasi volanti (sia nel senso della brevità che in quello delle risposte date a giornalisti in aereo), osserva che dà priorità al «tutto» contro gli individui o alla «realtà» contro l’«idea», interpretando ad uso e consumo populista due dei quattro «principi relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale» che orientano la «costruzione di un popolo in pace, giustizia e fraternità» (Evangelii gaudium, 221-237, d’ora in poi EG); gli altri due sono il «tempo» e l’«unità».
Dire che a Bergoglio non interessano gli individui vuol dire ignorare una caratteristica insistente del papa: l’attenzione ai volti e alle persone («carne di Cristo»). Dire che è un anti-intellettuale peronista perché privilegia la realtà, significa ignorare la costante tipica del suo essere gesuita: l’attenzione alla formazione intellettuale legata alla concretezza in modo che le idee non diventino ideologie, «una forma di occultamento della realtà» (EG 231).
Il suo è un processo alle intenzioni: Bergoglio vuole che esistano sempre i poveri, è insensibile alla dimensione istituzionale della democrazia, cultore del popolo (custode di una «identità eterna»), lontano dal ceto medio, contrario al mercato, ostile al pluralismo «che declina a suo modo come pluralità dei pueblos» concepiti come «identità popolari eterne e statiche».
Non è in gioco lo spirito critico verso il papa ma il testo di Zanatta non si richiama mai alle fonti e al nuovo contesto pontificio.
Bergoglio è Francesco, vescovo di Roma che, come si dice, presiede le altre Chiese nella carità. Sulle sue radici, l’autoprofilo è esplicito. Oltre a dichiararsi discepolo di Cristo e gesuita, Bergoglio descrive se stesso non solo come argentino arrivato «dalla fine del mondo», ma anche come figlio di italiani emigrati in Argentina, attento al «dialogo tra luoghi e culture tra loro distanti», quindi pontefice, «costruttore di ponti» (22 marzo 2013). Ultimamente, si è definito «figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede» (6 maggio 2016).
Bergoglio è ben cosciente dei rischi del populismo e di ogni altro ideologismo.
«Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile», dichiara nella EG (204). In Paraguay, nel luglio 2015, afferma che «le ideologie hanno una relazione incompleta o malata o cattiva con il popolo. Le ideologie non si fanno carico del popolo» aggiungendo che «le autentiche culture non sono mai identiche a se stesse, eterne, ma cambiano; non sono mai chiuse in se stesse, muoiono se lo fanno, ma sono chiamate a incontrarsi con altre culture e creare nuove realtà». Nell’intervento all’Associazione penale internazionale del 23 ottobre 2014, dedica un paragrafo ai rischi di un «populismo penale» distruttivo.
Francesco non parla solo di popolo ma anche di dignità, coscienza, diritti e doveri, relazioni, cura, umanità, responsabilità. Il suo linguaggio è variegato e interconnesso: biblico-evangelico, profetico-gesuano, simbolico-narrativo, esistenziale-relazionale, pastorale-inclusivo. Non tiene «infiammati discorsi» solo ai movimenti popolari, ma anche alla Confindustria e ai dirigenti d’azienda, a molte associazioni, ai politici europei e statunitensi, alle Nazioni Unite, alla curia romana, alla Chiesa italiana, alla Cei, al corpo diplomatico.
Non è il popolo populista al centro del suo immaginario sociale. È, anzitutto, il «popolo di Dio» proposto dal Concilio (Lumen gentium) e dalla EG dove afferma che «tutto il popolo di Dio annuncia il Vangelo» (111-134). Il popolo bergogliano è «umano», ha molti volti (ebraico, evangelico, apostolico, ecclesiale, ecumenico, indigeno, migrante, profugo, perseguitato, carcerato, nazionale e universale, femminile, giovanile, associativo) ma è sempre «per tutti» (112).
Quanto ai poveri, Bergoglio si preoccupa di differenziare l’«opzione per i poveri» da qualsiasi ideologia: «per la Chiesa l’opzione per ipoveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica […] Questa opzione, insegnava Benedetto XVI, è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà» (186-216). Dice la stessa cosa al Convegno della Chiesa italiana di Firenze (novembre 2015).
L’attenzione ai poveri si accompagna necessariamente a una costante lotta alla povertà cui non è certo estraneo il ceto medio: «Un’economia dell’esclusione e dell’iniquità (EG 53) ha portato ad un più grande numero di diseredati e di persone scartate come improduttive e inutili. Gli effetti sono percepiti anche nelle società più sviluppate, nelle quali la crescita in percentuale della povertà e il decadimento sociale rappresentano una seria minaccia per le famiglie, per la classe media che si contrae e, in modo particolare, per i giovani» (13.5.2016).
Il 18 maggio scorso afferma che «ignorare i poveri è disprezzare Dio», osservando che in Lc 16 il ricco non viene condannato perché ricco ma perché non ha condiviso la sua ricchezza.
Nel suo pensiero «poliedrico» si incrociano ricerche differenti (biblica, evangelica, teologica, tomista, gesuita, francescana, mistica, personalista, ecologica, conciliare) in una sintesi itinerante aperta alla profezia del Vangelo, alla sfida della realtà, al discernimento dei segni dei tempi, alla cura della terra e della famiglia umana.
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