L’Europa muore o rinasce a Sarajevo è il titolo di uno degli ultimi scritti di Alexander Langer, condensato in un documento firmato da molti intellettuali europei e consegnato ai capi di Stato e di governo riuniti a Cannes. Era il 26 giugno del 1995 e una settimana dopo Langer si toglieva la vita sulle colline di Firenze. Aveva trovato la sua risposta al dilemma: l’Europa sarebbe morta a Sarajevo. Sarebbe morta non offrendo alla Bosnia la possibilità di aderire all’Unione europea.
L’Europa non è morta, o almeno non è morta allora. Anzi, dopo la crisi balcanica ha avuto uno sviluppo senza precedenti: moneta unica, allargamenti, carta dei diritti, revisioni di trattati. Poi nuove ondate: crisi economica ma anche nuova governance. L’Europa non è morta, ma tende a vivacchiare, elaborando soluzioni parziali e tardive. Ciò accade non tanto per un’altra vulgata pericolosamente banale – quella secondo cui i leader del passato erano bravi e quelli di oggi sono scarsi – quanto per l’inevitabile struttura istituzionale di un’Unione così costruita e per il suo altrettanto inevitabile processo decisionale connaturato a tale struttura. È il paradosso di Monnet: solo l’integrazione funzionale e per gradi può funzionare, ma senza slancio politico è destinata ad andare troppo piano rispetto alle sfide cui deve far fronte.
L’impossibilità di funzionare diversamente da come funziona attira comprensibilmente all’Unione europea continue critiche, oltre a stimolare varie proposte per un nuovo slancio politico – ed è interessante che queste ultime (qui un esempio) vengano soprattutto da ex leader politici, che forse rimpiangono l’epoca in cui avrebbero voluto ma non hanno potuto essere più incisivi, o forse più sottilmente si divertono ad alimentare lo stereotipo nostalgico, sperando di essere ricordati in futuro come quelli bravi a confronto degli scarsi di domani.
Si prenda la cosiddetta «crisi dei migranti» e le dissonanti risposte che arrivano dalle diverse capitali oltre che ‒ un po’ mestamente, com’è appunto inevitabile ‒ da Bruxelles. Sostenere che «l’Europa» non ha fatto nulla sarebbe non solo ingeneroso ma profondamente sbagliato. Solo che ha fatto cose spesso contraddittorie, com’è nella sua natura e nella sua struttura: missioni di salvataggio e tentativi di ridistribuzione, incentivi e sanzioni, Frontex e accordo con la Turchia. Il tutto oscillando tra emergenza nelle risposte legislative e diritti umani (un po’ tutelandoli, un po’ delegandone la violazione).
Lo stesso hanno fatto, mutatis mutandis, gli Stati. Perché l’Europa è anche i suoi Stati, tanto più in materie non completamente comunitarizzate (per quanto lo sia largamente la politica di asilo e di visti, le sue fondamenta restano statali: integrazione, politiche sociali, cittadinanza). Lo è ancor più negli accordi bilaterali. Tra i primi c’è stata la Spagna, che ha fermato gli sbarchi di migranti africani alle Canarie con accordi con i Paesi costieri, e l’ingresso nelle enclaves di Ceuta e Melillia con misure alquanto brutali. L’Italia ci provò con la Libia di Gheddafi. Le “ex primavere” arabe hanno spostato il baricentro a est, la rotta balcanica è diventata un fiume nel 2015, ed è stata interrotta con un sistema quasi idraulico di dighe ai confini, che hanno creato un invaso in Grecia che ora si cerca di svuotare in parte attraverso la Turchia. Ora pare certa una ripresa della rotta da sud, e il baricentro si sposta tra gli hotspot meridionali e il Brennero, nonostante al momento la situazione al confine alpino sia assai più tranquilla di qualche tempo fa.
Tutto questo è facilitato dell’assenza di un’opinione pubblica europea e di un dibattito europeo, a loro volta facili da invocare ma difficili da costruire. Perché l’importante è spostare il «problema», o almeno illudersi di farlo. Se il «problema» è a Spielfeld, per l’Austria è risolto nel momento in cui si sposta a Idomeni, e per la Grecia e l’Unione europea lo sarà se e quando sarà spostato in Turchia. In Spagna, del tema non si parla quasi più. In Alto Adige non importa nulla di quanto accade a Pozzallo e quando diventa «caldo» il Brennero la domanda politica che lentamente si insinua al centro del dibattito non è sulla chiusura del confine, ma se ci si trovi dalla parte sbagliata dello stesso. E finché il «problema» (reale o percepito) è al Brennero, è contenta la Valle d’Aosta, al momento apparentemente fuori rotta. E via a catena.
Questo perché, com’è noto, le ricadute politiche sono nazionali, non europee. Vengono puniti sia i «buoni» (sono già arrivate le prima avvisaglie con le elezioni in alcuni Länder tedeschi, e ne arriveranno altre fino alle elezioni federali del 2017 che potrebbero cambiare la storia d’Europa), sia i «cattivi» (i partiti di governo in Austria, alla rincorsa degli estremisti). Alimentando il paradosso della contestuale impossibilità e inevitabilità di «soluzioni europee»: le soluzioni non possono che essere europee e per questo non possono che essere compromissorie, ma i cicli politici negli Stati, e talvolta nelle loro singole regioni, sono impossibili da coordinare. Con il risultato di alzare muri giuridici e ora anche fisici per fermare fenomeni non arginabili, anziché provare a governarli, e così al più spostandoli. Dando paradossalmente ragione a coloro i quali non si pongono i problemi dei confini ma solo della parte da cui stare, fingendo di dimenticare con quale rapidità questi nuovi muri salgono e scendono.
L’Austria è insomma la «cattiva» del momento per l’Italia, come lo è stata nei mesi scorsi per la Slovenia. Ma è parecchio utile alla Germania e, a cascata, ai Paesi che con la Germania confinano, direttamente o meno, specie verso nord e verso est. L’Ungheria è cattiva per la Serbia, la Romania e l’Ucraina (che non è sulla rotta migratoria ma ha motivi non meno pressanti per lamentare l’accresciuta durezza ai confini). Il gioco è ad incastro, con Spagna e Portogallo al momento quasi nascosti sperando di non essere visti.
Ma l’incastro è come un caleidoscopio, e i vetrini si scompongono e ricompongono in continuazione. È un «problema europeo».
[la versione estesa di questo articolo su Osservatorio Balcani e Caucaso]
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