Non è difficile individuare la differenza nella filosofia di fondo che ispira il cosiddetto “Migration compact”, pubblicato dal Governo italiano a ridosso di un’altra tragedia consumatasi nel Canale di Sicilia e le iniziative che seguirono il naufragio del 3 ottobre 2013, portando al lancio di una delle più vaste operazioni di ricerca e soccorso mai svolte nel Mediterraneo. In fondo è la medesima differenza che passa tra le proposte della “Task Force Mediterranean”, istituita dalla Ue all’indomani della tragedia di Lampedusa dell’ottobre 2013, e i contenuti dell’Agenda europea sulle migrazioni pubblicata nel maggio 2015, anche questa in seguito a un grave naufragio nelle acque del Mediterraneo. Ciò che balza immediatamente agli occhi è come gli imperativi umanitari, che hanno dominato le iniziative europee in materia di immigrazione a partire dall’ottobre 2013, siano stati rapidamente sostituiti dall’esigenza di tenere quanto più possibile a distanza migranti e richiedenti asilo, mettendo in sicurezza le frontiere europee.
A leggere il “Migration compact” si ha la tentazione di liquidarlo come un catalogo di vecchie ricette. La cosiddetta dimensione esterna delle politiche migratorie è un aspetto delle politiche europee in materia di giustizia ed affari interni che risale addirittura all’adozione del programma di Tampere (1999) ed è stato successivamente sviluppato nei programmi dell’Aia (2004) e di Stoccolma (2009), grazie ai quali la politica europea di cooperazione e sviluppo è stata progressivamente trasformata in uno strumento per imporre ai Paesi terzi le priorità della Ue in materia di controllo dell’immigrazione irregolare. In particolare, la filosofia della “condizionalità migratoria”, ciò che nel documento italiano viene eufemisticamente definito “fair bargain”, è diventata un cardine della politica di vicinato europea sin dalle conclusioni del Consiglio di Siviglia del 2002, mentre l’idea dell’offrire protezione internazionale nei Paesi d’origine e di transito circola, seppur declinata in maniera diversa, sin dalla proposta inglese di istituire centri di accoglienza nei Paesi terzi pubblicata nel 2003 e dal documento della Commissione Improving Access to Durable Solutions (2004).
Ma senza andare così indietro nel tempo, è sufficiente leggere i documenti che hanno preceduto i più recenti e convulsi sviluppi della politica migratoria europea – mi riferisco in particolare all’EU pact on immigration and asylum (2008), al documento EU action on Migratory pressures. A strategic response (2012), nonché al documento sul nuovo Approccio globale alla migrazione e alla mobilità (2011) – per constatare in che misura il governo italiano sembri non aver appreso la lezione degli ultimi anni. Qualsiasi tentativo di coinvolgere i paesi terzi nella gestione dei flussi migratori è infatti fallito per l'assenza di incentivi adeguati. A dispetto delle prospettive di partecipazione al mercato comune e di accesso allo spazio di libera circolazione che venivano ventilate nei primi documenti europei sulla politica di vicinato (2003), a nessuno dei Paesi terzi nord-africani è stato mai offerto molto più che qualche limitato vantaggio nella distribuzione delle quote visti. Alla stessa stregua, il documento del governo italiano, pur dichiarando che l’Ue debba impegnarsi sulle “priorità indicate dai Paesi terzi”, non presuppone l’avvio di un dialogo orizzontale con questi ultimi, dato che è facile immaginare che la posta in gioco delle negoziazioni diventerebbe immediatamente la questione della liberalizzazione dei visti e dell’apertura di canali migratori legali (così com’è avvenuto nel caso dei difficili negoziati con la Turchia). Piuttosto si immagina di poter continuare a gestire le relazioni di vicinato in maniera sostanzialmente asimmetrica, con l’Unione che impone la sua agenda di politica interna a partner che agiscono su un piano di inferiorità, riducendosi al ruolo di filtro poliziesco a protezione dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia.
Ma accanto alle vecchie ricette c'è almeno un importante elemento di novità; e non mi riferisco agli strumenti di finanziamento del programma, peraltro immediatamente bocciati dalla cancelleria tedesca. Mi riferisco piuttosto all’idea che le forze di sicurezza europee possano prendere direttamente in carico la gestione dei flussi migratori, assicurando la loro “costante presenza” nella regione ai margini del Sahara che va dalla Mauritania all’Eritrea, e alla proposta che la nuova agenzia di controllo delle frontiere europee possa gestire la politica di rimpatrio al posto delle autorità dei Paesi di transito, aiutandoli a respingere verso i Paesi d'origine i migranti giunti irregolarmente sul loro territorio. Se la dimensione esterna della politica migratoria europea si era fino ad ora limitata a imporre linee di policy e offrire supporto materiale ai Paesi terzi, attraverso un tentativo di “esternalizzazione” del controllo delle frontiere, il documento italiano si spinge fino a evocare la possibilità di una gestione diretta, in questo senso propriamente “extraterritoriale”, dei flussi migratori da parte delle agenzie di sicurezza europee; secondo il modello che si era tentato di perseguire già con la missione Eunavfor Med, che in base al disegno iniziale avrebbe dovuto presidiare anche le acque territoriali libiche in assenza di un'autorità politica locale in grado di farlo. Sulla praticabilità politica e giuridica di una simile strategia è lecito nutrire dubbi, sopratutto in assenza del consenso dei Paesi interessati. Più in generale però, mi pare che la strategia italiana stia muovendo nel senso di una decisa militarizzazione del governo delle migrazioni. Non è difficile immaginare che il tentativo del nostro governo di incidere sull’agenda europea passi anche attraverso il ruolo di Federica Mongherini, Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Occorre tuttavia chiedersi qual è il prezzo di tale ricerca di protagonismo. L’idea che la risposta alla crisi migratoria vada cercata nel rafforzamento delle misure di sicurezza e nell’escalation militare della lotta all’immigrazione irregolare mi pare una definitiva presa di distanza dalla filosofia umanitaria che aveva ispirato le iniziative intraprese all’indomani della tragedia di Lampedusa nell’ottobre 2013, contrassegnando una stagione di apertura rapidamente scivolata nella recente crisi delle politiche migratorie europee.
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