Fino a non molti anni fa la questione migratoria era relativamente chiara in teoria, anche se molto complessa sul campo. Con quali politiche migratorie gestire le pressioni determinate dalla domanda e dall’offerta di lavoro? Quanti e quali migranti ammettere? Come ridurre al minimo l’irregolarità? In che modo gestire i processi di integrazione?

Su questi temi, i Paesi europei – e l’Italia – si sono confrontatati e divisi e l’Unione europea si è limitata a coordinare aspetti di contorno, lasciando in capo ai singoli Paesi la gestione dei flussi, senza alcun coordinamento (art 79.5 del Tfue). Va da sé che questa limitazione è stata (ed è) una mina vagante per il corretto funzionamento di un mercato del lavoro unico e per la libera circolazione nello spazio europeo. Tuttavia, in tempi di stabilità, non si è sentita la necessità di un migration compact di natura analoga al fiscal compact faticosamente raggiunto durante la crisi. Ma a partire dal 2011, quando l’instabilità e i conflitti che avevano epicentro in Afghanistan e in Iraq sono giunti sulle rive del Mediterraneo, le cose sono improvvisamente mutate. L’ondata dei profughi ha lambito e poi sommerso i confini dell’Europa, mescolandosi ai flussi di irregolari, ed è apparsa evidente la debolezza, l’impreparazione e la frammentazione dell’Europa nel fronteggiare la nuova, eccezionale situazione.

Nel 2015, secondo le stime di Eurostat, i richiedenti asilo sono stati 1.321.000, più del doppio dei 627 mila del 2014, il triplo dei 431 mila del 2013 e il quadruplo dei 335 mila del 2012. Un aumento travolgente (pur se nei primi due mesi del 2016, i 180 mila richiedenti appaiono in flessione rispetto al picco dei mesi precedenti), dovuto in larga parte alla crescita dei profughi siriani nelle rotte del Mediterraneo orientale e dei Balcani. Vale la pena ricordare, però, che un afflusso così elevato non è poi cosa nuova in terra di Europa. «La Prima guerra mondiale causò flussi di rifugiati senza precedenti, a causa del ridisegno dei confini dei nuovi Stati volti a creare popolazioni più omogenee per mezzo di un “unmixing” etnico. La dislocazione di più di due milioni di tedeschi, polacchi e ungheresi fu seguita dalla deportazione di massa di greci e armeni, tra gli altri. E in risposta a queste crisi umanitarie la Lega delle Nazioni creò un Alto Commissariato per i Rifugiati, col mandato specifico di assistere un numeroso flusso di russi in fuga dalle loro terre per la rivoluzione, la guerra e la fame» (T. Hatton, 2012).

Il Secondo dopoguerra determinò il rientro nei nuovi confini della Germania di oltre 12 milioni di profughi tedeschi dai territori annessi dalla Polonia, dalla Russia, dalla Cecoslovacchia, e creò 2 milioni di rifugiati polacchi espulsi dai territori orientali del Paese annessi dalla Russia, oltre ad altri numerosi movimenti di profughi di minore entità (finlandesi dalla Russia, ungheresi dalla Slovacchia, italiani dalla Jugoslavia). In tempi più recenti, la guerra civile nella ex-Jugoslavia iniziata 1992 determinò, prima degli accordi di Dayton del 1995, oltre 400 mila profughi dalla Bosnia e dalla Croazia, in parte preponderante accolti in Germania. La maggioranza di questi, negli anni successivi, rientrò nelle terre di origine. Infine la guerra del Kosovo, del 1998-99, creò oltre 700 mila profughi verso i Paesi confinanti, soprattutto Albania e Macedonia, nella maggior parte rientrati ad ostilità finite.

Le sofferenze delle centinaia di migliaia, dei milioni di profughi sono della stessa natura indipendentemente dall’origine. Oggi i profughi non sono più europei, ma asiatici e africani, e provenienti non più da Paesi contigui, ma da Paesi lontani o lontanissimi

La nuova ondata di profughi e richiedenti asilo, se non più numerosa di altre del passato, ha tuttavia caratteristiche estremamente differenti. In primo luogo, le ondate novecentesche furono la conseguenza di guerre e conflitti avvenuti in Europa, con attori europei. Europei i Paesi i conflitto, europei i Paesi di origine ed i Paesi di destinazione dei profughi. Potremmo dire, con qualche cinismo, che si trattò di una questione “interna” all’Europa, anche se le sofferenze delle centinaia di migliaia, dei milioni di profughi sono della stessa natura indipendentemente dall’origine. Oggi i profughi non sono più europei, ma asiatici e africani, e provenienti non più da Paesi contigui, ma da Paesi lontani o lontanissimi. I flussi, poi, sono di natura mista, formati in parte forse prevalente da individui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese” (art. 1a della Convenzione di Ginevra). Ma sono flussi composti anche da persone che fuggono la povertà, l’instabilità, l’arretratezza (migranti economici). Discernere gli uni dagli altri non è agevole e a volte è impossibile, come sanno le Commissioni incaricate di vagliare le domande di asilo. Un altro aspetto che rende assai diversi i flussi attuali da quelli novecenteschi sta nel continuo mutare delle rotte e delle modalità d’ingresso, in un mondo sempre più interconnesso e mobile, con mezzi di comunicazione sempre più veloci e flessibili.

Molti si domandano se l’attuale afflusso di profughi (includendo dunque anche chi veramente profugo non è, e non avrebbe titolo all’asilo) non sia destinato ad alterare significativamente la demografia del continente. È una domanda legittima, soprattutto se gli ingressi in Europa dovessero continuare al ritmo degli ultimi mesi. Si consideri anzitutto che il flusso netto migratorio nel continente – secondo le stime delle Nazioni Unite – è stato dell’ordine di un milione e mezzo all’anno, nell’ultimo quindicennio. Teniamo in conto anche la debolezza demografica dell’Europa che, in assenza di immigrazione, perderebbe circa il 10% (attorno a 70 milioni) della popolazione attuale tra oggi e la metà del secolo. Supponendo un flusso annuale di un milione di profughi per un periodo di cinque anni, gli effetti a lungo termine sarebbero abbastanza modesti rispetto ai vuoti che si andranno creando nella popolazione del continente, anche perché il potenziale di crescita di questi nuovi europei sarebbe relativamente basso. E questo sia perché la loro più alta natalità (si stima che il numero medio di figli delle Siriane sia dell’ordine dl 3,2) è destinata a convergere con quella propria dei Paesi ospitanti; sia perché la composizione per genere dei profughi è fortemente squilibrata a favore degli uomini (i quattro quinti dei migranti adulti), anche se destinata poi a riequilibrarsi con i graduali ricongiungimenti familiari. Infine è presumibile che una quota non trascurabile dei profughi possa rientrare nei Paesi di origine, una volta vi si fosse normalizzata la situazione.

L’accoglienza dei profughi costa: arrivano senza niente ed hanno bisogno di tutto. Anche le procedure di espulsione di coloro che non hanno diritto all’asilo o alla protezione costano caro

L’accoglienza dei profughi costa: arrivano senza niente ed hanno bisogno di tutto. Anche le procedure di espulsione di coloro che non hanno diritto all’asilo o alla protezione costano caro. Si stima che, in Europa, il costo del primo anno di un rifugiato sia compreso tra 8.000 e 12.000 euro. La Germania in risposta allo svilupparsi della crisi dei rifugiati ha programmato – per il 2016 e il 2017 – una spesa pubblica aggiuntiva pari allo 0,5% del Pil per l’accoglienza e l’integrazione nel mercato del lavoro; l’Austria ha messo sul piatto l’equivalente dello 0,3% del Pil, la Svezia il triplo, con lo 0,9%. L’aiuto della Turchia ai profughi Siriani, nel 2014, è ammontato allo 0,8% del Pil. Sono cifre importanti, se si pone mente ai travagli del nostro Paese nello spostare, nel nostro bilancio, anche minime frazioni del prodotto. Tuttavia i profughi, una volta concesso l’asilo, possono entrare nel mercato del lavoro, uscire gradualmente dall’assistenza pubblica, diventare autonomi, e contribuire all’economia di un Paese. Naturalmente la velocità di entrata nel mercato del lavoro dipende dalle caratteristiche personali, dalla formazione, dalle condizioni del mercato del lavoro e da molti altri fattori ancora. Tuttavia alcune analisi rivelano che questo processo è abbastanza veloce: in Canada e Svezia tra i due terzi e i tre quarti dei rifugiati, dopo quattro anni, non dipendono più dal sostegno pubblico. Si tratta, certo, di Paesi bene organizzati, con ottimi sistemi di welfare ed i risultati non sono generalizzabili. Ma le buone politiche, però, possono essere imitate e utilmente trasferite in contesti diversi. E, alla lunga, il costo iniziale dei rifugiati può tradursi in un apporto positivo alla società che li ospita.

 

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