Era il 9 giugno del 1991 quando più di 29 milioni di italiani si recarono alle urne per esprimere il loro parere sulla preferenza unica. Il 62,6% degli aventi diritto, che resero valido il referendum. Per l’allora leader Bettino Craxi, che aveva capeggiato la campagna astensionista invitando tutti ad «andare al mare», fu l’inizio della fine. Allora Craxi, forse non del tutto consapevolmente, trasformò il referendum sulla preferenza unica in un referendum su se stesso. Oggi Renzi, del tutto consapevolmente, ha reso il referendum costituzionale che (senza quorum) ci chiamerà alle urne, prevedibilmente in autunno, un referendum su se stesso e sulla sopravvivenza del suo governo.
Prima del prossimo autunno, però – molto prima, il 17 aprile – avrà luogo un altro referendum. Non costituzionale ma abrogativo. Sarà dunque necessario raggiungere il quorum previsto dall’articolo 75 della nostra Costituzione («La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi»).
Il referendum del 17 aprile si terrà poiché la Corte costituzionale ha ammesso la richiesta espressa da nove regioni italiane (dieci in origine, ma all’ultimo l’Abruzzo guidato dal renzianissimo Luciano D’Alfonso si è tirato indietro). Il quesito referendario è il seguente: «Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?». La questione riguarda solo la durata delle trivellazioni già in atto entro le 12 miglia dalla costa, e non tocca invece né quelle sulla terraferma, né quelle in mare a una distanza superiore. Il movimento che si è speso e si spende per promuovere il referendum, cosiddetto «No triv», ha molto sottolineato il tema ambientale. Oltre ad accusare il governo di avere evitato volutamente l’accoppiamento con le comunali per limitare il più possibile il raggiungimento del quorum (ma la legge, decreto 98 del 2011, prevede la possibilità di abbinare referendum tra loro o elezioni di diverso grado tra loro, ma non l'abbinamento di elezioni con referendum, se non ricorrendo a uno specifico dispositivo) e, oggi, lo accusa di evitare accuratamente qualsiasi cenno all’appuntamento del 17 aprile.
Al di là delle ragioni di tipo economico e occupazionale, su cui le posizioni sono diverse (personalmente trovo convincenti quelle di chi, come Arturo Lorenzoni che ne ha scritto qui, sostengono che la scelta sia fra un modello di sviluppo dal fiato corto e uno coerente con le linee sostenute anche dal governo italiano in occasione di Cop21), penso valga la pena di soffermarsi su quelle che interrogano, o dovrebbero interrogare, una democrazia costituzionale.
Da molto tempo ormai assistiamo nel nostro Paese a un progressivo e inesorabile calo della partecipazione politica, che si registra sia nel coinvolgimento dei cittadini alla vita politica nel senso più pieno del termine (basti pensare ai dati sui tesseramenti) sia nella partecipazione al voto (si vedano, ad esempio, i dati sull’affluenza per il voto alla Camera: 1948-2013, o quelli relativi alle elezioni regionali: 1970-2015). Per i più smemorati vale la pena di ricordare, uno fra tutti, il dato registrato alle ultime elezioni regionali in Emilia-Romagna (novembre 2014), dove votarono il 37,7% degli aventi diritto contro il 68,1 delle precedenti regionali (marzo 2010) e il 70% delle europee (maggio 2014).
In un simile quadro, che ci limiteremo a definire sconfortante, aggravato da campagne antipolitiche che sinora hanno dato soprattutto frutti avvelenati, sembra legittimo aspettarsi dal governo e più in generale da chi ricopre cariche istituzionali se non l’invito ad andare a votare almeno l’impegno a rammentare l’appuntamento. A tutt’altro, viceversa, stiamo assistendo. Il silenzio che circonda il referendum «No triv» rischia di apparire così irresponsabile, a un primo livello. Complice di interessi economici specifici, a un secondo livello.
Al referendum manca un mese, un tempo sufficiente per porvi rimedio. Anche su questo si misurerà la reale volontà di Matteo Renzi di cambiare davvero «verso».
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