Dopo anni di quiete, il sistema della comunicazione è in fibrillazione. Ha suscitato ampio scalpore la fusione (che avverrà nei fatti entro un anno) fra il Gruppo Espresso, di proprietà della famiglia De Benedetti, che avrà la guida del nuovo gruppo, e Itedi, la società editrice de «La Stampa» e «Il Secolo XIX», di proprietà della famiglia Agnelli. Carlo De Benedetti ritorna da protagonista presso quel mondo che gravita intorno alla Fiat (ora Fca), da dove iniziò la sua avventura imprenditoriale. La famiglia Agnelli, oltre all’uscita dalla «Stampa», ha annunciato il disimpegno anche da Rcs, e quindi dal «Corriere della Sera» (e dalla «Gazzetta dello Sport»).
Il nuovo gruppo potrà contare su circa 800 mila copie di diffusione e 5,8 milioni di lettori (lo stesso numero di ascoltatori, per fare un raffronto, del Tg1 della sera). Sulla vicenda le opinioni divergono fra chi si preoccupa per la compressione degli spazi di libertà e chi vede in essa un inevitabile percorso industriale a fronte della (solita) globalizzazione dei mercati (in effetti, l’editoria è un settore prevalentemente domestico) e ai processi d’innovazione determinati dai new media, internet in particolare.
C’è del vero in entrambe le posizioni; ma il dato rilevante da rimarcare è che ci si trova di fronte a un cambiamento profondo dell’intero sistema delle comunicazioni, fenomeno che avviene, generalmente, quando c’è una leadership politica particolarmente forte. Successe con Berlusconi trent’anni fa, sta avvenendo adesso con Matteo Renzi. La particolare attenzione alla comunicazione accomuna Berlusconi e Renzi, senza mai dimenticare però che il primo era protagonista di un mastodontico conflitto d’interessi.
Il settore dell’editoria quotidiana non è particolarmente concentrato. L’indice HHI, che misura il livello di concentrazione, è pari (dati Agcom) a 996 punti per i quotidiani (la soglia critica supera i 2.500 punti), mentre per la pay-Tv è 6.778 (la concentrazione, un duopolio Sky e Mediaset Premium, è in questo settore ai massimi livelli) e 3.469 per la Tv free. Seppure il settore dei quotidiani abbia una maggiore dispersione, è un dato di fatto che la fusione delle due società porterà a una diffusione del 21% (15,6% per i quotidiani dell’Editoriale Espresso e 5,4% per Itedi), superiore al tetto del 20% previsto dalla legge n. 67/1987 (sulla fusione dovranno quindi intervenire le Autorità di controllo). È importante poi valutare chi diventerà proprietario del gruppo Rcs, che porta in dote una quota del 16% della diffusione globale.
Gli allarmi sui rischi di concentrazione e sulla riduzione delle fonti d’informazione, alla luce di questi ultimi dati, sono dunque più che fondati.
Va anche detto che il settore dei quotidiani è in profonda crisi; è un mercato che allontana gli investimenti piuttosto che attirarli (sempreché gli investitori cerchino il profitto e non usino i giornali per favorire altri business). Solo pochi dati per dimostrarlo.
Le vendite medie giornaliere dei quotidiani ammontavano nel 1990 a 6,8 milioni, oggi sono pari 3,2 milioni. Il mercato pubblicitario ha subìto nell’ultimo decennio un vero e proprio tracollo, anche a causa della crisi economica e della relativa contrazione dei consumi. Il crollo ha colpito in modo particolare la stampa. Gli investimenti pubblicitari sui quotidiani che nel 2000 ammontavano a 2.010 milioni di euro, nel 2015 sono precipitati a 756, facendo registrare un calo pari a -6% in media annua. I quotidiani avevano nel 2000 il 25% della quota del mercato pubblicitario, oggi ne detengono solo il 13% (i periodici sono passati dal 15 all’8%). Rimangono come fonte di finanziamento le provvidenze pubbliche, anch’esse peraltro in calo.
Un nuovo mercato si è nel frattempo aperto, ed è quello di Internet, che ha portato risorse aggiuntive, ma non tali da compensare, almeno per ora, le perdite dei ricavi tradizionali. Gli abbonamenti dei grandi giornali (le vendite digitali ammontano mediamente per un grande quotidiano al 20% del totale) si scontrano con la consuetudine, tipica del web, di consumare la comunicazione gratuitamente (il che significa grazie alla pubblicità). I proventi per la pubblicità sulle edizioni online, la vera nuova fonte di finanziamento, trovano ancora limiti nella contenuta diffusione in Italia di Internet e nella scarsa considerazione dei grandi inserzionisti del «costo per clic», il valore delle visualizzazioni dei siti.
Alla luce di tutto ciò, le fusioni fra società editoriali diventano necessarie per contenere il divario fra costi e ricavi. Ogni voce di costo ne trae vantaggio, a iniziare da quella riguardante il lavoro giornalistico, che ha la possibilità di spalmarsi su un maggior numero di lettori. Anche i ricavi pubblicitari traggono vantaggio dalle concentrazioni: l’ampliamento della platea dei lettori fa aumentare in misura più che proporzionale il valore pubblicitario del mezzo.
In conclusione, le concentrazioni sono un’inevitabile risposta alla contrazione degli spazi di mercato. Non a caso si parla anche di una fusione fra «Libero» e «Il Tempo».
Ma facciamo un passo indietro. Negli anni Novanta ci fu la «guerra di Segrate» per il controllo di Mondadori (che all’epoca possedeva anche «la Repubblica») fra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, guerra che terminò con la spartizione del gruppo: Mondadori a Berlusconi e «Repubblica» (con «L’Espresso») a De Benedetti. Dopo quello scontro, una sorta di quiete ha avviluppato il sistema, con Berlusconi che, nel frattempo, dopo la nota «discesa in campo», ha governato a lungo il Paese. Nel settore televisivo ha dominato il duopolio Rai-Mediaset, fondato sulla cosiddetta «pax televisiva», grazie alla quale la Rai ha mantenuto la leadership degli ascolti e Mediaset ha potuto contare su entrate pubblicitarie superiori alle effettive potenzialità del mezzo, dovute a una sorta di euforia consumistica alimentata proprio dalla pubblicità, nata nei fatti con la Tv commerciale, e in parte da un’acquiescenza dei grandi inserzionisti nei confronti delle reti berlusconiane.
Ma dopo questo lungo periodo di calma, il sistema delle comunicazioni è di nuovo in fermento. All’inizio del 2015, Ei Towers, la società delle torri di trasmissione di Mediaset, ha lanciato una Opa nei confronti dell’omologa società Rai Way. Un fatto clamoroso: sembrava che Mediaset volesse comprare la Rai. Il progetto è fallito anche perché bloccato dalle Autorità di controllo (Antitrust e Agcom), ma l’ipotesi di riorganizzare il sistema di trasmissione rimane all’ordine del giorno, anche a proposito dello sviluppo della banda larga. Su quest’argomento è probabile che sarà il governo a dire l’ultima parola.
La Rai è stata oggetto di attenzione; si ricordino le critiche da parte di esponenti del Pd rivolte anche a singoli programmi. C’è stata la nomina dei nuovi vertici, e nel 2015 sono state tolti alla Rai 150 milioni di euro dei proventi da canone da destinare a coprire, in parte, il provvedimento sugli «80 euro in busta paga». A fine 2015 sono state approvate due leggi importanti: a) la revisione del sistema di nomina del CdA, con l’introduzione della figura dell’amministratore delegato al posto del direttore generale, sistema che assegna di fatto al governo il controllo sul servizio pubblico; b) l’ancoraggio del canone di abbonamento al contratto per l’energia elettrica, sistema che, nelle intenzioni, dovrebbe eliminare la consistente evasione del canone e dare quindi un maggiore provento alla Rai (una parte del maggiore introito dovrebbe andare anche alle emittenti locali).
Nei confronti della Rai, il governo ha un atteggiamento di critica e insieme di benevolenza.
Nel frattempo Mediaset, quasi in risposta a chi la ritiene in difficoltà, si è ampliata: Mondadori ha acquisito la sezione libri di Rcs e ha aumentato la sua presenza tra le radio. Soffre la concorrenza nel segmento della pay da parte di Sky e, a tal riguardo, si parla di un accordo fra i due operatori. Nel sistema televisivo Rai, Mediaset e Sky detengono il 90% delle risorse, equamente distribuite. È quindi sufficiente che un operatore cali o cresca più degli altri, perché l’intero sistema si rimodelli.
All’orizzonte c’è, infine, Telecom (Tim), oggetto di scontri per il suo controllo, che potrebbe giocare la partita più importante sulla Tv via cavo.
Come si vede, la vicenda «Repubblica» - «Stampa» è solo una delle tante dell’ultimo anno. I processi di riorganizzazione e di concentrazione andranno ancora avanti, in parte sulla spinta delle logiche di mercato e, per altro verso, per conformare il sistema ai nuovi equilibri politici. Per questo motivo sarebbe necessario rivedere le normative antitrust, e rendere le Autorità pubbliche di controllo veramente autonome per garantire al meglio il pluralismo delle fonti d’informazione.
La sinistra si distinse durante l’epoca berlusconiana per la difesa del servizio pubblico e del pluralismo in generale (anche se ha avuto la responsabilità di non aver rimosso il conflitto d’interessi, nel periodo in cui è stata al governo). Ora che è al governo non manifesta le stesse intenzioni, e ciò potrebbe giustificare, fra l’altro, chi dallo schieramento opposto dovesse ripetere gli stessi atteggiamenti una volta al potere.
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