«Di solito non la guardo, ma devo proprio dire che…». Una frase che è un grande classico quando parliamo di televisione, a rimarcare una distanza vera o presunta da un medium che ancora, a distanza di più di sessant’anni, ci sembra spesso banale, volgare, «deficiente». E una premessa che diventa ancor più necessaria la settimana di Sanremo, quel breve periodo a febbraio in cui anche i più insospettabili capitolano e (fosse solo perché molto del resto si ferma) sostano anche soltanto per cinque minuti davanti all’apparecchio tv (o alle clip su YouTube) per saggiare qualche canzone, giudicare le performance di conduttori e vallette, rimpiangere i tempi in cui i brani erano migliori, le sorprese erano davvero tali e i conduttori si chiamavano Pippo o Mike. Possiamo resistere, possiamo negarlo, ma ha avuto ragione Carlo Conti, al timone da due edizioni, quando come slogan dei suoi Festival ha scelto la doppietta «tutti amano Sanremo» e «tutti cantano Sanremo». Non si scappa dalla tautologia. La gara di canzonette sulla riviera ligure, e tutta la costruzione televisiva e spettacolare che sta intorno, almeno per alcuni giorni è un discorso totalizzante: tutti (o molti) sono coinvolti in qualche modo, prendono posizione, condividono memorie, si lanciano in critiche, televotano, commentano abiti e gag, diventano fan o detrattori.Il Festival costituisce una situazione sospesa, quasi una pausa dal fluire del resto dell’anno, un posto magico dove la realtà sta fuori, o comunque esiste soltanto se passa attraverso il filtro distorto delle varie serate, dei testi delle canzoni e degli sketch, delle prese di posizione degli artisti e dei politiciDi Sanremo si parla tanto, si parla in continuazione: nei media che amplificano ogni battito d’ala, dai talk show del pomeriggio fino ai paludati quotidiani che scendono in forze nella sala stampa dell’Ariston, ma anche nelle conversazioni, mediate o immediate che siano. Il Festival costituisce una situazione sospesa, quasi una pausa dal fluire del resto dell’anno, un posto magico dove la realtà sta fuori, o comunque esiste soltanto se passa attraverso il filtro distorto delle varie serate, dei testi delle canzoni e degli sketch, delle prese di posizione degli artisti e dei politici. A volte l’attualità è prevista in scaletta, come con gli spazi pensati per sensibilizzare sul tema dei migranti (per poi passare ad altro), altre volte si inserisce in modo inatteso, come i nastrini colorati e i discorsi dei cantanti a sostegno delle unioni civili (o, su altro versante, il richiamo ai marò del governatore Toti).
Sanremo è una bolla, comunicativa e mediale, dove tutto succede perché ci si aspetta che qualcosa debba succedere per forza, dove la costruzione dell’evento conta più dello spettacolo in sé. Sanremo è sempre diverso e sempre uguale. E anche l’edizione che si è appena conclusa mantiene il più tradizionale dei modelli (riproponendo quasi in blocco lo schema di base dell’anno prima, sempre a gestione Conti), limitandosi a piccoli aggiustamenti e variazioni sul tema. Ma nonostante questa fissità e questo eterno ritorno – o, forse, proprio per quello – risaltano con chiarezza alcuni suoi tratti specifici.
Quello 2016 è stato, innanzitutto, un Festival programmaticamente medio. Senza picchi e senza sprofondi, appiattito su un livello uniforme, su un procedere (troppo) tranquillo. È in fondo la logica del denominatore comune, dell’assestarsi sulle necessità comuni a tutti senza soddisfare davvero nessuno, di quello che gli americani chiamano least objectionable programming, l’accurata selezione di temi, volti, contenuti e linguaggi che non spaventino nessuno, che creino il minore numero di obiezioni. Questo vale in positivo, come risposta a un bisogno profondo di aggregazione e di comunità, alla necessità – anche in tempi di frammentazione dei consumi e dei gusti – di trovare qualche discorso collettivo, qualche punto di riferimento saldo a cui approdare tutti. E vale in negativo, perché evita ogni conflitto, cancella le increspature, svuota di senso proprio quello spazio comune faticosamente trovato.
È stato quindi un Sanremo onnivoro. Cinque serate che si sono trasformate presto in un’abbuffata di generi, personaggi e mezze idee, di tutte le pulsioni della tv passata e presente. Le canzoni, ovviamente, e gli sketch comici. Gli sportivi e gli eroi della fiction. Le imitazioni e gli chef televisivi. Le star del cinema di Hollywood (con Nicole Kidman) e l’intervista doppia delle Iene (con Gabriel Garko e Nino Frassica). Il talent show e il momento poetico, con adeguate sottolineature. Il racconto strappalacrime, l’impegno sociale, persino la mobilitazione. La sfilata di moda, il fotoromanzo e tanta, tanta pubblicità. Il Festival diventa uno showcase ecumenico che a Rai affianca Mediaset e Sky, un microcosmo che mette in scena lungo una settimana tutta la tv che conta, i suoi pochi fermenti, la sua pluridecennale stasi.
Ancora, è stato un Festival costruito per accumulo. Pur di non escludere niente e nessuno dalla visione, pur di toccare tutti i generi e tutti i gusti dello spettacolo televisivo, ogni serata si è trascinata fino a notte fonda, affastellando contenuti di ogni tipo, lasciando il palco a deviazioni ancora più numerose delle già troppe canzoni in gara. La medietà diventa così incapacità di scegliere, di selezionare (anche a costo di lasciare fuori qualcosa), di dare un punto di vista o almeno una direzione precisa a quell’insieme composito di materiali. Quello di Carlo Conti, conduttore-vigile urbano che regola il traffico e ne garantisce il fluire tranquillo, senza intoppi di sorta, è uno spettacolo più di struttura che di contenuto: ci sono molto ritmo e un’attenzione spasmodica alla scaletta, ma si applicano a una massa informe e sovrabbondante di elementi; c’è un mestiere sicuro, privo però di grandi idee.
In fondo, così, il Sanremo 2016 è passato in modo innocuo e indolore, tutto sommato piatto. Un evento che mentre accade già svanisce, senza lasciare traccia, senza che rimanga nulla (o quasi). Nel bene e nel male, non c’è niente da inserire negli annali, nulla di cui ci ricorderemo anche soltanto tra qualche mese, nulla di diverso da altre serate di televisione qualsiasi. Restano alcuni personaggi di Virginia Raffaele (come Carla Fracci e Donatella Versace), la storia e il pianoforte di Ezio Bosso, la discesa dalle scale di Madalina Ghenea e la disperata autoironia di Garko, ma è tutto lì, ed è molto poco.
Le tradizionali polemiche sono tanto usurate da essere sgonfie ancor prima di iniziare, le trovate autoriali innocue o subito disinnescate, gli occhiolini lanciati al pubblico social (come lo spazio dato a Cristina d’Avena e alle sigle dei cartoni animati) sono necessità più che convinzioni, i cantanti in gara e i super-ospiti si sono spesso limitati al manierismo di se stessi. Il tentativo di smussare ogni angolo, molto riuscito dal punto di vista degli ascolti, lascia poco spazio a qualcosa che sia davvero memorabile.Il Sanremo 2016 è passato in modo innocuo e indolore, tutto sommato piatto. Un evento che mentre accade già svanisce, senza lasciare traccia, senza che rimanga nulla (o quasi)E allora che cosa rimane di Sanremo? Al di là dello spettacolo messo in scena, al di là del programma oggetto di visione e di attenzione, l’aspetto davvero rilevante è il rituale. Un rituale trasversale, largo e compiutamente generalista, in fondo persino democratico. Non soltanto la metà della platea televisiva italiana è stata stabilmente davanti alla tv in queste cinque serate, ma i dati di ascolto testimoniano come il Festival abbia coinvolto (in modo fedele) anche il pubblico più giovane, anche gli spettatori laureati. Sanremo è uno spazio neutro e condiviso, per chi è genuinamente coinvolto dalla gara come per chi predilige l’hate-watching e il commento caustico, o per chi semplicemente vuole esserci.
La differenza tra la visione partecipe (dal televoto al ritornello di una «canzone brutta», per citare Elio e le storie tese, che si conficca per giorni nella testa) e la distanza ironica (sublimata nel Dopofestival della Gialappa’s, nell’inesausto chiacchiericcio sui social, nei gruppi d’ascolto e nelle chiacchiere da bar) quasi scompare, al punto che non si capisce bene dove finisca l’una e dove cominci l’altra. A dare senso all’esperienza, a giustificare tutta quell’attenzione e concentrazione, non è il programma ma quello che ci sta attorno, il suo carrozzone, la complicità nel trovarci lì tutti assieme, anno dopo anno, davanti a una delle poche cerimonie collettive sincere che ci restano. «Perché Sanremo è Sanremo», come nei classici Festival della gestione Baudo: con la consapevolezza, evidente fin dal giorno dopo, che saremo lì davanti al televisore anche l’anno prossimo. Nonostante tutto.
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