Oggi, 27 gennaio, in occasione della Giornata della memoria, viene inaugurato un memoriale dedicato alla Shoah nel piazzale di accesso alla nuova stazione dell’alta velocità di Bologna. Un progetto realizzato a tempo di record: il bando è uscito esattamente un anno fa, indicando come il memoriale dovesse essere realizzato in «a significant site in the city» e individuando così il piazzale creatosi «by accident» durante la realizzazione della nuova stazione.

Vincitore del concorso è risultato il gruppo set Architects di Roma, il cui progetto consiste nella realizzazione di due alte pareti in acciaio cor-ten separate da un sottile spazio per il passaggio, concepite come un modulo cellulare proiettato verso un punto di fuga all’orizzonte. L’idea è nata elaborando lo schema dei dormitori delle baracche dei campi di concentramento e in particolare partendo da un famoso scatto, quello che il soldato Harry Miller fece in una baracca del campo di concentramento di Buchenwald il 16 aprile 1945, in cui molto tempo dopo si riconobbe Elie Wiesel.

A un anno di distanza, le due pareti, alte dieci metri, si innalzano tra due setti della stazione ancora in cantiere, sulla copertura dell’area Nord, dedicata al passaggio dell’alta velocità. I caratteri di accidentalità e significatività attribuiti al luogo dove realizzare il memoriale sono più stretti di quanto si possa immaginare: il piazzale «accidentale» è un frammento del progetto disegnato da Ricardo Bofill per la nuova stazione (1995-1997), che in quel luogo immaginava la costruzione di un accesso. Di quel disegno è stata attuata solo la parte funzionale (i setti che contengono degli impianti) ma non la sua totalità dato che, dopo un’accesa polemica culminata in un referendum cittadino, anche l’ultima variante del progetto venne infine rifiutata.

La vicenda del rinnovamento della stazione di Bologna è lunga e complessa, iniziata pochi anni dopo la strage del 2 agosto 1980: il concorso del 1983 portò idee e soluzioni rimaste tuttavia sulla carta. Intanto, nella necessaria ricostruzione di allora prevalse la funzione del nodo ferroviario sulla memoria della strage. Si scelse di conservare il cratere della bomba, segnare con un squarcio la parete tra la sala d’aspetto e il primo binario, collocare una lapide (l’orologio verrà fermato alle 10 e 25 solo in un secondo tempo), ma non vennero fatti gesti memoriali evidenti, accentranti, assoluti.

Una scelta che oggi farebbe discutere ma che trentacinque anni fa, forse per un diverso «spirito del tempo» apparve la naturale e più giusta reazione. Bisognava andare avanti e cercare di capire cosa era accaduto: prima della memoria veniva il lutto, la cura per i sopravvissuti, la ricerca della verità. Nel tempo il corpo stesso del fabbricato viaggiatori, e in particolare l’ala ovest con la sala d’aspetto, è divenuto il memoriale del 2 agosto: un memoriale fatto di elementi diversi, minuti, quotidiani.

La stazione di Bologna è molto più di un luogo significativo per la città: si configura come luogo della violenza e del trauma per la comunità locale e per l’intero Paese, tanto da poterlo definire, per il ruolo assunto nella storia dell’Italia repubblicana, un vero e proprio «luogo di memoria», applicando il paradigma dello storico francese Pierre Nora. Un luogo di memoria, tuttavia, di cui molti sanno ancora pochissimo, rendendolo sacro ma per certi aspetti astratto. Si pensi alla polemica attorno all’intervento dell’artista Luca Vitone che, in occasione dell’accensione delle luminarie natalizie dello scorso anno, ha proposto di fare apparire sul ponte della stazione il simbolo della P2; non per sfregio o ambiguità, anzi, per ricordare e riportare complessità alla storia rimossa o mal elaborata della strage e del Paese.

Diverso è il rapporto tra questo luogo e la storia della deportazione e della Shoah, il cui legame con Bologna e la sua stazione è reale e drammatico - si pensi al convoglio partito il 9 novembre 1943 da Firenze con destinazione Auschwitz, che qui fece tappa portando via anche alcuni ebrei bolognesi - ma non vede la città tra i luoghi più tragicamente colpiti (come, ad esempio, la vicina Ferrara) o trasformati in centri della deportazione o campi di transito (di cui Fossoli, nel carpigiano, è uno dei casi principali).

Passando accanto al memoriale bolognese la sensazione più forte, al momento, è quella di una «sproporzione», formale e concettuale. Come ha ricordato Adachiara Zevi durante la seduta solenne del Consiglio comunale di Bologna in occasione del 27 gennaio, a partire dalla metà degli anni Ottanta la progettazione di segni memoriali si è confrontata con il silenzio e l’afasia generate dalla Shoah, dal suo peso storico, fatto non solo di vittime, carnefici e «giusti», ma di connivenze, delazioni, zone grigie e indifferenze.

Per dare corpo a tutto questo, artisti e progettisti hanno scelto una via antimonumentale. Dai BBPR per Carpi, Milano, Gusen, Auschwitz; agli esempi dei cosiddetti Gegen-denkmal tedeschi (contro-monumenti nella definizione di J.E. Young); fino ai Stolpersteine, le «pietre d’inciampo» dell’artista Gunter Demnig, i caratteri di questi memoriali sono quelli della relazione, la diffusione, la sottrazione, la scomparsa, l’afasia. È soprattutto il processo che porta alla costituzione di questi memoriali a essere importante: le persone, da osservatori, sono trasformate in elementi attivi che attraverso azioni (per esempio la ricerca delle biografie delle vittime, ma anche dei perpetratori; il tentativo di rispondere a domande che mettono in discussione il proprio vissuto e il proprio presente) contribuiscono alla costituzione del progetto.

Un processo, questo, che spesso richiede tempo, ma lascia tracce importanti. L’elaborazione del memoriale berlinese, il Denkmal für die ermordeten Juden Europas, ha vissuto una complessità di questo genere: il dibattito attorno a quale spazio dovesse occupare, quale forma dovesse assumere, quale nome dovesse avere, ha occupato per anni i media, la discussione pubblica e politica, la riflessione storica e progettuale. Il disegno iniziale a firma dell’architetto Peter Eiseman e dell’artista Richard Serra, vincitore del secondo concorso, è stato elaborato e trasformato più volte, tanto da far rinunciare lo stesso Serra.

Ma il dibattito sul memoriale, denominato addirittura Denkmalstreit (controversia del memoriale), ha fatto emergere consapevolezze, coscienze sopite e rimosse, prendendo corpo sulla staccionata che avvolgeva il campo vuoto dove avrebbe dovuto sorgere il memoriale. Tra le varie scritte, una estremamente significativa: das Mahnmal ist schon hier, «il monumento è già qui». Nel confronto, nel dibattito, nel processo.

Nella seduta del Consiglio comunale hanno preso parola anche i ragazzi delle scuole che, per un anno intero, hanno partecipato a un lavoro attorno alle biografie di quei bambini, ebrei bolognesi, che nel 1938 furono colpiti dalle leggi razziali, iniziando con l’espulsione dalla scuola un drammatico percorso di persecuzione, fuga, deportazione, in certi casi senza ritorno. Una studentessa ha sottolineato l’importanza di questo lavoro per lei, perché della Shoah si parla sempre «in generale», mentre capire cosa è accaduto vicino, tra le pareti delle stesse scuole, nelle vie della stessa città, rende più efficace, duraturo, sottile il lavoro educativo che può scaturire dall’esercizio della memoria.

Allo stesso modo, forse, più che dei memoriali in generale, avrebbe senso attivare dei processi di consapevolezza rivolti non solo al passato, ma al presente. Ne era consapevole Primo Levi, che di fronte agli studenti degli anni Ottanta, di un tempo lontano dalla guerra e la deportazione ma non privo di urgenze, si metteva in relazione e in ascolto.