Un accordo internazionale non è una legge. Una legge contiene due elementi, in genere – e con le dovute eccezioni: l'indicazione di un obbligo e la previsione di una sanzione per chi non vi ottemperi. Un accordo o un trattato internazionale spesso indica obblighi – obblighi di natura contrattuale, per così dire, cioè obblighi che le parti s'impegnano a rispettare –, ma non sempre, o quasi mai, prevede sanzioni. A questo schema non sfugge l'accordo di Parigi sul contenimento delle emissioni di gas a effetto serra: questo trattato condivide con il suo più illustre precedente – il cosiddetto Protocollo di Kyoto – e con molteplici accordi di questo tipo tutte le fragilità proprie di questi strumenti di auto-regolamentazione. Detto questo, però, si tratta di un indubbio passo avanti.
Come si potrà vedere scorrendo le pagine del testo approvato il 12 dicembre, ci sono molti aspetti positivi – sia simbolici sia pratici –, anche se non mancano incognite e aspetti negativi, come si può vedere già in queste ore nei primi commenti (ad esempio). Alcune caratteristiche positive dell'accordo sono le seguenti:
– si afferma che l'azione di contenimento delle emissioni dev'essere guidata dal rispetto dei “diritti umani, del diritto alla salute, dei diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali, dei migranti, dei bambini, delle persone con disabilità e in situazioni di vulnerabilità, del diritto allo sviluppo, dell'eguaglianza di genere, dell'empowerment delle donne e dell'equità intergenerazionale”. Si richiama anche il principio tradizionale delle responsabilità e delle capacità differenziate, a seconda dei contesti nazionali, nonché l'importanza, anche culturale, degli ecosistemi e della biodiversità (particolare importanza viene data al contenimento della deforestazione) e il legame fra lotta al cambiamento climatico e azioni che allevino la povertà globale. A parte il mancato riferimento alle responsabilità storiche dei Paesi industrializzati, c'è tutta la piattaforma della migliore teorizzazione sulla cosiddetta giustizia climatica, elaborata negli ultimi trent'anni;
– il trattato riconosce l'obiettivo che la comunità scientifica indica come minimo e necessario: una riduzione della temperatura globale al di sotto dei 2°C, e possibilmente arrivi a 1,5°, rispetto ai cosiddetti “livelli preindustriali”, cioè ai livelli di concentrazione di gas serra nell'atmosfera prima del 1750. Inoltre si indica un limite temporale – la metà del secolo prossimo – per raggiungere la meta;
– è presente una certa attenzione ai diritti dei Paesi in via di sviluppo – soprattutto il diritto all'accesso alle energie sostenibili e allo sviluppo –, alla loro vulnerabilità e alle loro necessità di adattamento agli effetti negativi del cambiamento climatico, un'attenzione che prevede anche contributi finanziari pari a 100 miliardi di dollari (in cadenza annuale a partire dal 2020) e iniziative di aiuti vari allo sviluppo.
Il vero punto problematico riguarda però il meccanismo che dovrebbe portare alla riduzione delle emissioni. Il trattato si affida a impegni di riduzione presi autonomamente dai vari Paesi, e presentati in dichiarazioni nazionali – i cosiddetti “contributi promessi stabiliti a livello nazionale” (intended nationally determined contributions). Questi impegni erano già stati sollecitati, e molti Paesi li hanno prodotti: il preambolo sollecita chi non l'abbia già fatto a produrli entro il novembre del 2016, quando ci sarà la ventiduesima conferenza. A tutt'oggi, però gli impegni presi non sono sufficienti: se ci limitasse agli obiettivi fissati nelle dichiarazioni nazionali sin qui presentate si arriverebbe a un livello di 55 gigatoni di gas serra nel 2030, laddove si dovrebbe invece passare a 44. Il meccanismo previsto dall'accordo è che questi impegni dovrebbero indicare con chiarezza i punti di partenza, gli obiettivi e il contributo di ciascun Paese alla riduzione globale di emissioni, e verranno rivisti al rialzo ogni cinque anni almeno: ci saranno procedure pubbliche comuni di controllo e di valutazione, che terranno conto dei criteri scientifici di misurazione più avanzati e oggettivi, almeno a cadenza biennale (con l'eccezione dei Paesi meno sviluppati e le piccole isole), mentre dal 2023 ci saranno conferenze quinquennali per valutare i progressi fatti. È previsto anche un comitato di controllo – che non avrà però poteri sanzionatori.
L'idea implicita nell'accordo è che dovrebbero funzionare tre tipi di meccanismi: la reputazione e la forza dell'esempio (chi presenta certi impegni non dovrebbe disattenderli, dato che la sua mancanza diverrebbe immediatamente pubblica, né dovrebbe barare nel proporsi mete troppo facili, dato che sta sotto gli occhi di tutti, e magari ci sono Paesi più piccoli e meno responsabili che promettono di fare di più); la progressività (non si può tornare indietro: non si può non rinnovare il proprio impegno, né impegnarsi a fare di meno di quanto si sia già fatto); la cooperazione (l'accordo dovrebbe essere ratificato da una larga maggioranza delle parti della Convenzione quadro, almeno 55 Paesi). Si tratta di meccanismi che sono stati efficaci in altri contesti – e a volte sono più efficaci delle sanzioni tradizionali.
C'è da sperare che questo valga anche in questo caso – data l'enormità della posta in gioco.
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