La solidarietà è scontata, ma è anche un sentimento di circostanza. Cosa significa infatti solidarietà in una Unione europea indebolita da tensioni interne, priva di una leadership autorevole, attratta sempre dalle sirene del sovranismo? Queste sono le domande all’indomani della strage di Parigi.
Al vertice del G20 in Turchia, l’Europa si è presentata coi suoi capi di Stato, anche se c’erano, come di rito, i vertici dell’Unione europea. Cosa questi ultimi possano offrire di più e di diverso che illudersi di coordinare almeno un poco i loro riottosi condomini non è chiaro. Bruxelles ha un gigantesco apparato burocratico, ha uffici che si occupano di tutto, ma quando c’è da operare non è in grado di farlo. È una sgradevole verità, ma bisognerà pur prenderne atto.
Sul delicatissimo scacchiere mediorientale i grandi Paesi del nostro continente si muovono in ordine sparso, ciascuno per sé. I medi e i piccoli non solo non si muovono, ma non fanno neppure l’intendenza, quella che secondo Napoleone poi seguirà. Anche senza arrivare al complicato panorama siriano, si può vedere benissimo che in Africa una politica europea si fatica a trovarla, vuoi che si parli dell’Africa mediterranea (e basterebbe il caso del Libano, per non dire delle primavere arabe), vuoi che si parli di quella subsahariana (e qui tanto per ricordare ci sono Mali, Niger, Somalia, per tacere della Nigeria alle prese con Boko Haram).
Il massimo che si è visto in questi giorni è una riconsiderazione della linea politica verso la Russia con richieste da parte di quote delle varie opinioni pubbliche di rivedere la politica delle sanzioni a seguito del suo comportamento verso l’Ucraina. Certamente Mosca è un alleato prezioso se si deve ragionare di una pacificazione della Siria, ma rimane un alleato infido, perché è la sua storia dai vecchi tempi dell’impero zarista che la spinge verso quelle terre. Inevitabile farci i conti, ma bisognerebbe sapere chi sarà poi in grado di contenerne gli appetiti.
Stesso discorso con la Turchia di Erdogan, che sta da decenni sull’uscio dell’Unione senza che ci si decida se chiudere definitivamente un occhio sul suo disinvolto autoritarismo o se mettere qualche regola chiara sulle compatibilità che si richiedono per accedere al sistema di Bruxelles. Che poi su queste compatibilità si sia fatto più di un compromesso da quando si è deciso l’allargamento ad Est è un altro sgradevole capitolo che si preferisce non prendere in considerazione.
Poi c’è la scivolosa questione del ruolo della Gran Bretagna. Proclamato che ormai siamo “in guerra” con l’estremismo islamista che perso l’Afghanistan si è conquistato un altro suolo da elevare a “stato”, tutti corrono a dire che della potenza militare che ha sede a Londra non si può proprio fare a meno. Difficile negare che quello britannico sia l’esercito professionale più efficiente di cui dispone l’Europa (e l’unico di cui l’esercito Usa si fida ciecamente). E così sarà impossibile non accondiscendere a concedere a Cameron quella “special partnership” che richiede, minacciando altrimenti di uscire dall’Unione.
Se davvero si vorrà avviare una azione coordinata per portare sotto controllo contemporaneamente i flussi migratori e l’aggressività del terrorismo islamista non sarà possibile evitare a lungo di misurarsi con questi problemi. Intendiamoci: in sé non c’è relazione necessaria fra immigrazione ed espansione del terrorismo islamista, ma una cattiva gestione di quei flussi e della loro sistemazione successiva alimenta l’acqua in cui sguazza quel pesce. Non è tutto lì, ma molto passa di lì.
Ciò che colpisce è l’assenza di un qualsiasi dibattito su questi problemi, contemporaneamente serio e capace di coinvolgere vasti strati dell’opinione pubblica. Non lo promuovono i vertici degli Stati e si può capire, ogni classe politica difende le sue rendite di posizione. Non lo promuovono i vertici di Bruxelles e questo è incomprensibile, perché senza un ripensamento di questo scenario saranno ridotti all’irrilevanza. Potranno continuare a fare quelli che convocano le assemblee di condominio e che poi stilano i verbali delle sedute, potranno continuare a bearsi del loro ruolo di censori del mondo, potranno compiacersi di un Parlamento sempre meno significativo che però è sempre pronto a sfornare indirizzi che compiacciano il progressismo di maniera. Più in là non andranno e col tempo si finirà per chiedersi se quei servizi non possano essere assicurati diversamente e a minor prezzo.
Lo choc delle stragi di Parigi potrebbe essere l’occasione per riaprire il discorso di una profonda revisione dei meccanismi e del modo stesso di essere dell’Unione europea, ma dubitiamo che accada. Non fosse altro perché ogni Stato membro ha già cominciato a servirsene per cercar di regolare i suoi conti politici interni.
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