La prima delle luci è che la riforma della Publica Amministrazione si farà. Non era affatto scontato. La seconda è che si realizza com’era all’origine, magari con qualche necessario compromesso, ma tenendo ferma l’impostazione iniziale. La quale corrispondeva e corrisponde in molti tratti all’eredità virtuosa del riformismo amministrativo degli ultimi decenni del Novecento, dal progetto Giannini (1980-81) alle politiche di Cassese, poi di Bassanini ecc.

Questa linea trova corrispondenza in un movimento più vasto, di dimensioni europee e non solo, di recente sintetizzato in un interessante articolo che Giulio Napolitano ha dedicato ai “casi stranieri” sulla “Rivista trimestrale di diritto pubblico” n. 2, 2015. Gran Bretagna, Francia, Spagna, in parte la Germania, sullo sfondo gli Stati Uniti, hanno messo in atto da circa trent'anni politiche anche molto incisive per adeguare i propri apparati amministrativi (e spesso anche quelli istituzionali, i “rami alti”) ai mutamenti velocissimi in atto nell’economia e nelle società del nostro tempo. Dapprima (nell’ultimo Novecento) in una chiave prevalentemente di decentramento e di dimagrimento liberista dello Stato; più di recente (negli anni della crisi) puntando su semplificazione, snellimento degli apparati, velocizzazione dei tempi delle burocrazie, concentrazione delle responsabilità, merito e valutazione. Queste due ultime parole, “merito” e “valutazione”, sono diventate anzi la bandiera delle riforme, traducendosi ovunque in cambiamenti radicali dei sistemi di selezione, organizzazione e avanzamento del personale.

Intendiamoci: anche nella fase attuale lo Stato, per effetto delle politiche di spending review, si assottiglia; ma l’enfasi posta anni fa sul modello dell’azienda privata si è oggi molto ridimensionato e le funzioni pubbliche tornano a essere considerate in parecchi casi inestinguibili, per quanto da esercitarsi secondo criteri nuovi, tali da renderle efficaci e tempestive.

Aggiungo un altro punto chiave: le riforme, dappertutto, fanno sistema. Non era così, prima. In un articolo del 1988 che ho riproposto per intero su “Nuova Etica Pubblica” Massimo Severo Giannini tracciava un impietoso bilancio di quello che considerava realisticamente, allora, il fallimento della sua riforma (il celebre Rapporto, subito archiviato dalla cattiva politica degli anni Ottanta): il professore condannava l’abitudine, tipica dei governi italiani di ogni epoca, di affrontare i problemi, specialmente quelli della Pubblica Amministrazione, episodicamente, senza mai inserirli in un  quadro d’insieme per lo meno di medio periodo. Riforme isolate, o anche a raffica (come poi accadde nell’epoca di Bassanini), ne abbiamo dunque avute anche di meritevoli. Ma quasi mai inquadrate in un disegno generale perdurante nel tempo, una mission trasmessa come un testimone nella staffetta tra governi di segno diverso. È mancata cioè una strategia continuativa, possibilmente bipartisan, delle riforme.

Nel disegno di legge (quasi legge mentre scrivo: serve solo un passaggio al Senato) vi sono alcuni punti fermi che ne costituiscono i pilastri. Al tempo stesso però – l’ho anticipato – si notano anche alcune ombre, sulle quali bisognerà intervenire.

I pilastri sono quattro:

1) il primo è l’intervento sulla dirigenza, che mira a realizzare come in altri Paesi un’élite, cioè un corpo snello, moderno, responsabile, ringiovanito, dotato di poteri effettivi, valutato e soprattutto mobile nelle funzioni e nel territorio. È implicito nella legge anche un altro obiettivo: avere finalmente (o si dovrebbe dire nuovamente, pensando alla storia remota dell’amministrazione italiana) una dirigenza di “generalisti” (di qui il ruolo unico), forte della sua competenza e autonoma dalla politica. Su questo punto ho un’unica perplessità: fermo restando che la dirigenza deve poter dirigere, mi sembrano ancora deboli o inespressi i criteri di valutazione con cui saranno conferiti gli incarichi (il merito, va bene: ma accertato come?). Se tutto resterà affidato alla discrezionalità del ministro di turno avremo – temo – amare sorprese. Occorreranno dunque delle regole.

2) Secondo pilastro è il reclutamento del personale, la riforma dei concorsi. Il concorso in Italia è legge dal primo Novecento (1908, prima che in Francia, 1946), ma spesso è vanificato dalla cooptazione, seguita dalla inevitabile stabilizzazione. Per primo, dunque, bisogna imporre il concorso, sempre e comunque. Secondo punto, non meno importante: fare i concorsi come Dio comanda. Nessun Paese civile recluta il suo personale come lo facciamo noi (i maxi-concorsi alla Fiera di Roma o – altra faccia della stessa medaglia – i mille concorsini ad hoc gestiti dalle varie amministrazioni centrali o decentrate a vantaggio dei soliti noti). Nessuno in Europa si affida più all’erudizione giuridica, ai manuali di diritto, rinunciando a valutare seriamente i candidati in relazione alle funzioni che andranno a esercitare, alle loro competenze, attitudini, inclinazioni persino psicologiche. La nuova legge interviene opportunamente su questo difetto capitale; ma resta troppo laconica sulle assunzioni fuori sacco. Ecco un altro punto da rafforzare adeguatamente.

3) Terzo pilastro, l’informatica negli uffici e la piena realizzazione della cittadinanza digitale (con apposita “carta”), nel segno di una ormai vecchia ambizione: quella di costruire un’amministrazione non  più a misura del personale ma del cittadino. Se si punta sulla rete, però, anche l’organizzazione dovrà adeguarsi, rinunciando ai vecchi modelli verticali per adottare, appunto, quelli che si chiamano modelli a rete. Sarà una rivoluzione e bisognerà gestirla.

4) Quarto pilastro, infine, la semplificazione diffusa, cominciando dalla eliminazione di realtà parassitarie, come certe società partecipate degli enti locali create solo a uso della politica delle spoglie e finendo con la riforma del procedimento, della prassi, del linguaggio persino. C’è da fare tutto un lavoro minuto di chirurgia istituzionale, eliminazione di doppioni e funzioni sovrapposte, accorpamento di personale, pulizia della troppo vasta e attorcigliata matassa amministrativa. Avranno i governi la costanza di fare questo lavoro, anche toccando qualche nervo scoperto?

Ci sono poi le semplificazioni sulle conferenze di servizi, l’introduzione del silenzio-assenso (in parte corretta da un emendamento alla Camera), la riforma delle camere di commercio, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro degli impiegati (con soluzioni interessanti), le misure su trasparenza e lotta alla corruzione ecc. Molte le deleghe (troppe): e qui vedremo se la riforma godrà, nei palazzi, del necessario consenso di chi quelle norme attuative dovrà mettere su carta.

Bisogna essere chiari: con ciò, ovviamente, non si sarà ancora effettuata la riforma complessiva dell’amministrazione. La madre di tutte le riforme è ancora incinta, per così dire; o ha partorito solo i figli primogeniti. Restano da fare moltissime cose.

Prima di tutto modificare il sistema nervoso delle pubbliche amministrazioni, imponendo dappertutto il primato di funzioni e obiettivi; apparati mobili e veloci nella assegnazione di risorse e personale sulla base di progetti (missioni) circoscritti e valutabili. Controlli di sostanza e non più formali. Basta coi “conti separati dall’amministrazione” (Carlo Petrocchi, inizi Novecento).  Poi dotarsi di un personale diversamente formato (la prevista riforma delle scuole, ridotte ora ad una ma senza una chiara missione e i poteri necessari). Infine, riforma delle riforme, polso molto fermo nel tenere il timone.

La riforma, come sempre è accaduto, avrà molti nemici. Magari, come ci insegna la storia, sin nelle stesse stanze del potere. Perciò, a conti fatti, la responsabilità maggiore, come sempre, starà in capo alla politica. Di bei progetti irrealizzati sono pieni gli archivi.