Il Centro Editoriale Dehoniano ha comunicato la chiusura, al termine del 2015, de "Il Regno" – una rivista che, a partire dal Vaticano II, è stata  tra le voci più autorevoli e indipendenti nel panorama del cattolicesimo europeo. Le ragioni che hanno portato a questa sofferta, ma inevitabile, scelta sono note ben oltre il mondo cattolico dell’informazione: mutamento del comparto dei media, restrizione del bacino dei lettori, peso della crisi economica e finanziaria in corso, problemi e costi legati alla distribuzione postale. Se certo si tratta della vicenda di un piccolo mondo, quello cattolico, in un Paese ormai liminale rispetto alla configurazione culturale e socio-politica del contemporaneo, l’Italia, in essa si rivela un problema di ben più ampia portata: quello dell’intreccio fra cultura, informazione, analisi e trasformazioni profonde di quello che resta dell’uomo europeo.

Anche rimanendo nel suo piccolo, non si tratta di un passaggio indolore. "Il Regno" è stato tra i protagonisti maggiori della creazione di un’opinione pubblica nella Chiesa cattolica, tessendo la trama di uno spazio libero all’interno della fedeltà storica al Vangelo quale cardine della vita ecclesiale. Alternativo, senza essere snob; dialettico, senza essere polemico (a parte qualche ormai lontano passaggio a inizio anni Settanta del secolo scorso); fedele al Vaticano II, senza essere nostalgico. In questo ha svolto una funzione fondamentale nel dare forma all’interlocuzione fra la società civile italiana e il cattolicesimo, operando (rispetto ad altre riviste europee simili) in una condizione di eccezione: appunto quella italiana, con la presenza diretta nella vita della Chiesa e del Paese del Vaticano. Una condizione che è stata una risorsa e un limite, come sempre è delle eccezioni. Dalla chiusura delle rivista anche la Chiesa, come fede vissuta e istituzione, ne uscirà più indebolita.

Eppure la chiusura de "Il Regno" eccede la sua stessa storia; e chiama in causa quel grande comparto tradizionale che potremmo definire riviste di analisi e interpretazione culturale e politica – non solo qui da noi, ma ovunque nella parte occidentale del mondo. Quando chiude una di queste riviste assistiamo a uno strano fenomeno: viviamo infatti il paradosso di un lutto che colpisce soprattutto gli autori e genera il dispiacere o la preoccupazione dei residuali lettori – sentimenti, questi, del tutto ignoti a quelli nati dopo di loro. Questo avrebbe dovuto dirci qualcosa in corso d’opera, ma è già tanto se ce ne accorgiamo dopo che tutto è finito. I processi di trasformazione nelle generazioni più giovani, con le quali ho a che fare quotidianamente all’università (quindi già in un ambito elitario, di eccezione), sono così ampi e profondi che è difficile intuire la via per una coltivazione della riflessione e dell’analisi che accompagni la massa di informazioni cui accedono attraverso canali fluttuanti e infatuanti. Comunque più coerenti al loro vissuto rispetto alle nostre paludate elucubrazioni e più sinceri rispetto al restyling giovanilistico a cui cerchiamo di sottoporre il nostro gergo o le nostre forme di comunicazione di massa.

Forse sarebbe bene che tutti ci risvegliassimo dal grande sonno in cui siamo caduti ammirando l’autorevolezza che si è raggiunta con merito e fatica. Il lettore in partenza non esiste più, bisogna costruirlo pezzo per pezzo. Con un piccolo problema, ossia che non c’è più nessuna istanza che metta mano a questo lavorio che ci garantirebbe la sopravvivenza. Per quanto riguarda questo comparto di riviste, che ha segnato la storia del dopoguerra europeo (e non solo), da quello che vedo, chi riesce ad andare ancora avanti lo fa su una base che è sempre più esigua, una sorta di nicchia di eccellenza in via di rapida estinzione; oppure grazie a un bacino linguistico praticamente illimitato, ma sempre più instabile e cangiante nelle sue preferenze grazie alla sensazione di illimitatezza delle risorse che offre lo specchio della rete. Penso qui soprattutto alle riviste di lingua inglese. Ma anche in questo caso dobbiamo osservare bene le cose. Basterebbe guardare a "Foreign Affairs", che può far conto su una delle lobbies geo-politiche più influenti e autorevoli al mondo (il Council on Foreign Relations con sede a New York). Il fatto che svenda l’abbonamento online al formato pdf della rivista a un prezzo praticamente irrisorio dice pur qualcosa di una scrittura in disperata ricerca di lettore.

Torniamo alla vicenda di casa nostra e al piccolo mondo cattolico occidentale. Davanti alla chiusura de "Il Regno" si può provare dispiacere e preoccupazione, per il vuoto che così si viene a creare. Ma non sorpresa. Perché quello che accade a "Il Regno" sta accadendo altrove alle forme ereditate dal moderno di una rappresentanza pubblica del pensiero e dell’analisi della fede – basti pensare all’insostenibilità delle facoltà teologiche nel sistema universitario statale tedesco, tanto per fare un esempio. In questa sfera della vita civile così importante ci stiamo consumando: nel paradosso che la legittimazione oramai raggiunta non riesce a coprire la pertinenza del costo dell’impresa – ovunque. Cosa fare davanti a questo fenomeno rimane la grande domanda finora inevasa.

Se per un attimo riuscissimo a uscire dal labirinto di specchi attraverso il quale ciascuna rivista fanciullescamente coltiva la fede indefettibile nella propria insostituibilità, ci accorgeremo che la chiusura de "Il Regno" è qualcosa che deborda i limiti del cattolicesimo e dell’Italia. Quale scrittura di analisi culturale e socio-politica davanti al processo di irreversibile trasformazione dei modi di lettura delle generazioni che hanno nelle mani il domani del governo sugli interessi delle cose?