Tutti i problemi del Fondo. Anche negli ultimi giorni continuiamo a parlare di Grecia e di Troika, soprattutto di Unione europea e pure di Banca centrale. Poco, o nulla, si è sentito sull’ultimo componente del terzetto, il Fondo monetario internazionale.

Almeno finché, nelle ultime settimane, il Fondo è finito sotto il tiro incrociato di molti critici, da sinistra e da destra, dall’Europa e dal resto del mondo.

La storia recente del Fondo è complicata e soprattutto a cavallo di fine secolo furono moltissime le critiche per la gestione delle crisi finanziarie, per i modelli di sviluppo proposti – e, spesso, imposti – e per una governance tutt’altro che trasparente. I problemi erano sia dal lato dell’economia che della politica: troppo rigido nel sostenere globalizzazione e neo-liberismo, per alcuni oppositori, o troppo piegato agli interessi nord-americani, il famoso Washington consensus, per alcuni altri.

Le stesse critiche riemergono ora riguardo al caso greco. Da una parte, il Fondo è stato – e rimane – uno dei più fieri paladini dell’austerity. Fin dall’inizio della crisi si è spinto per un programma di tagli, pronosticando una veloce ripresa che non è mai avvenuta. Alcune delle critiche più acute sono venute dall’interno dell’Imf stesso: prima l’ex capo economista Blanchard e poi una serie di paper interni hanno criticato l’austerity e ammesso in maniera esplicita che le politiche proposte in Grecia erano sbagliate.

Sorprendentemente, o forse no, la condotta politica del Fondo non è però cambiata di una virgola. Anzi, apparentemente, negli ultimi giorni Christine Lagarde si è messa di mezzo a un raggiungimento dell’accordo con Atene, continuando a spingere per misure ultra-punitive, come l’aumento dell’IVA invece di una crescita della corporate tax, o un taglio delle pensioni al posto del congelamento della spesa militare, come proposto da Tsipras. Anche l’insistenza sulle riforme strutturali sembra quantomeno strumentale, dato che sono sempre gli studiosi del Fondo ad essere molto cauti sui reali effetti concreti nel breve-medio periodo di tali riforme.

In realtà, come ben descritto da un commentatore attento come Ambrose Evan Pritchard, l’Imf è in una posizione molto delicata. Il pacchetto iniziale di “salvataggio” della Grecia non segue nessuna delle regole del Fondo: l’austerity non è stata accompagnata da nessuna misura di sostegno all’economia ellenica, debt relief e svalutazione. La critica mossa da molti donors è che l’intervento non sia stato mirato a salvare la Grecia, quanto piuttosto a salvare l’Unione europea e le banche private esposte in Grecia, che erano soprattutto francesi – incidentalmente, come Lagarde e il suo discusso predecessore Strauss Kahn. E qui torna nuovamente in ballo la bizzarra governance del Fondo, in cui il managing director è, per una regola non scritta ma apparentemente ferrea, un europeo. Che sembra più interessato a problemi di politica nazionale che alla missione del Fondo stesso – un conflitto d’interessi di notevole portata.

In effetti, il pacchetto di aiuti ha salvato le banche europee – e dato un po’ di fiato alla Ue – rimpiazzando il debito greco verso i privati con uno verso creditori pubblici. Le risorse dell’Imf – è la critica – sono stati usati per un’operazione politica e non economica e ora i donors vogliono vedere quei soldi tornare indietro, nonostante esista un consenso generalizzato che il debito greco sia fondamentalmente inesigibile. Ecco allora che, come denunciato da Ashoka Mody, già alto funzionario del Fondo stesso, la posizione attuale del Fondo sembra mirata a salvare la faccia del Fondo stesso – sostituendo il debito verso l’Imf con uno nuovo verso l’Europa, e lasciando poi la patata bollente ad Atene e Bruxelles.

Allo stesso tempo, anche per quanto riguarda l’Ucraina, si stanno alzando voci critiche che accusano il Fondo di usare i fondi degli Stati per interessi geopolitici di una parte. Mentre i Brics si organizzano per lanciare una loro banca di sviluppo che possa fare da catalizzatore per un ordine mondiale sempre meno centrato sull’Occidente.

Il Fondo è dunque in crisi: gli studi prodotti dagli economisti sono ignorati palesemente dai vertici politici; gli share-holders sono sempre meno soddisfatti; e le azioni del Fondo sembrano spinte da considerazioni che sono tutt’altro che economiche. Il capitale più importante di un’istituzione finanziaria, pubblica o privata, è la sua reputazione. Quella del Fondo rischia seriamente di essere compromessa.