Mercoledì 27 maggio. Salgo sul treno Öbb delle ferrovie austriache a Verona, tratta Venezia-Monaco di Baviera, sto ritornando a casa, a Bressanone, 40 km a nord di Bolzano, 40 km a sud del Brennero. Alle 16 e 30 arrivo a Bolzano e assisto alla scena che da un mese si ripete puntualmente ad ogni partenza del treno per Monaco: gruppi di poliziotti a terra controllano i passeggeri in salita, bloccano i profughi per lo più provenienti dal Corno d’Africa,che identificano con facilità e impediscono loro di salire sul treno, altri poliziotti ispezionano ogni vagone, ogni gabinetto, ogni scompartimento. Qualche minuto prima della partenza scendono dal treno scortando un gruppetto di passeggeri “indesiderati”: ragazzi e ragazze di colore dai visi spauriti, qualcuno trascina un trolley con il quale ha cercato di sembrare un passeggero “normale”. Sono passivi, rassegnati all’ennesima tappa del loro lungo viaggio, che dovrebbe condurli in Germania o ancora più a nord, in Danimarca, in Svezia, per trovare condizioni di vita migliori. Il viaggio della speranza.
È trascorso poco più di un mese da quando il fenomeno del transito dei profughi che vogliono oltrepassare la frontiera del Brennero è diventato evidente nella tranquilla stazione ferroviaria di Bolzano. Il 16 aprile avevo accompagnato a Bolzano i miei alunni, studenti di terza liceo scientifico, per sostenere l’esame di accertamento della lingua italiana e tedesca, l’esame di bilinguismo, che ogni altoatesino che intende lavorare nel settore pubblico deve superare. Dovevo rientrare a Bressanone con il treno interregionale delle 12 e 01, ma a causa di alcuni lavori sulla linea il treno era stato soppresso. Così ho deciso di prendere l’intercity delle ferrovie austriache.
Normalmente i treni austriaci non vengono usati dai pendolari, perché sono troppo cari e a bordo non viene accettato “l’Alto Adige pass”, un abbonamento che permette di utilizzare tutti i mezzi di trasporto altoatesini a tariffa agevolata. Ma quel giorno avevo fretta di rientrare a Bressanone. Appena giunta in stazione mi sono accorta che stava accadendo qualcosa di insolito: sul binario 3, dal quale normalmente parte il treno per il Brennero, stavano seduti a terra gruppi di ragazzi di colore, qua e là anche qualche ragazza, forse etiopi o eritrei, tutti con jeans e felpa di cotone, uno zainetto in spalla, scarpe da ginnastica vistosamente nuove. I più si coprivano con il cappuccio della felpa quasi a volersi nascondere per passare inosservati fra i passeggeri in attesa, come se nella stazione di Bolzano fosse facile passare inosservato per un nero. Dopo un po’ vedo arrivare molti poliziotti, almeno dieci, dal settore nord del binario e noto che altrettanti stanno risalendo da sud. Osservo stupita e a un certo punto vengo avvicinata da un ragazzino – avrà 15 o 16 anni, forse meno, dai tratti lo identifico subito come magrebino, anche lui con felpa e zainetto. In mano un biglietto ferroviario, in inglese mi chiede da dove parte il treno per Monaco di Baviera. Gli rispondo che è sul binario giusto, il treno sta per arrivare. Mi accorgo che il ragazzino mi sta molto vicino, cerca di nascondersi dietro di me, fa finta di viaggiare con me. Leggermente infastidita mi sposto e rimango in attesa. I poliziotti iniziano ad allontanare i ragazzi neri dal binario, li fanno scendere nel sottopasso, i più li seguono senza protestare, alcuni cercano di opporsi, senza successo, incalzati cedono e seguono gli altri. Improvvisamente dall’altoparlante giunge l’annuncio che il treno sta arrivando al binario 5, i passeggeri si dirigono frettolosamente nel sottopassaggio, e io con loro. Una voce al mio fianco richiama la mia attenzione, è nuovamente il ragazzo magrebino “You are like my mother. Help me, help me!”. Un sentimento di pena mi assale… e di impotenza, cosa posso fare, come posso aiutarti ragazzo? Gli indico il binario, è il binario giusto, il treno sta per arrivare, di più non posso fare per te; continuo a salire le scale del sottopassaggio e il ragazzino si perde nella folla.
All’arrivo del treno la scena diventa frenetica, gruppi di ragazzi di colore cercano di salire, i poliziotti entrano in azione, li intercettano tutti, il conducente fermo sull’altro binario scende dal locomotore urlando “È passato sotto il treno! Sei pazzo, sei pazzo!”: alcuni profughi per rompere la barriera di poliziotti sono strisciati sotto il convoglio in partenza dal binario 6. Noi passeggeri “normali” saliamo, alcuni poliziotti setacciano il convoglio, controllano, fanno scendere i profughi che sono riusciti a nascondersi in qualche scompartimento. Fra loro il ragazzo magrebino. Lo obbligano a scendere e lui inizia a piangere, a gridare, si divincola, non vuole scendere, lo trascinano a terra, alcuni poliziotti passando si giustificano, “Scusate, stiamo facendo il nostro lavoro.” Si chiudono le porte, il treno si mette in moto, noi passeggeri guardiamo attoniti fuori dai finestrini: lungo la banchina restano a fissarci i volti ammutoliti di un gruppo di disperati.
Oggi la scena è sempre la stessa, ciò che è cambiato è l’atteggiamento della gente: la situazione è diventata “normale”, ne parlano quotidianamente i giornali e i notiziari, i passeggeri non si stupiscono più, ad ogni partenza qualche profugo tenta la sua carta fortunata, ad ogni partenza qualcuno di loro viene fatto scendere, riproverà domani. I passeggeri continuano a leggere i loro libri, ascoltano musica, dormono, chiacchierano, telefonano, mandano messaggi.
Quando il poliziotto apre lo scompartimento e controlla attentamente lo spazio sotto i sedili, la mia amica mi guarda perplessa, siamo sedute sul treno da un’ora e mezza, “Ti immagini” mi domanda “se ora ci accorgessimo che qualcuno sta viaggiando nascosto sotto i nostri sedili?”. Un brivido ci scuote.
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