Il dibattito degli ultimi mesi sulla riforma elettorale si è imperniato su affermazioni propagandistiche dell’una e dell’altra parte, che non è difficile smontare senza dover scomodare più di tanto il diritto o la scienza politica. Sono perciò cinque pezzi facili.
“Con la legge elettorale che approveremo, i cittadini sapranno chi li governerà il giorno dopo le elezioni”.
Nel ventennio trascorso, salvo che nel 2013, il giorno dopo le elezioni si è sempre saputo qual’era la maggioranza parlamentare e chi avrebbe assunto la carica di presidente del Consiglio. Ma davvero è questo che conta dal punto di vista democratico? Dopo le ultime elezioni, tanto in Germania quanto nel Regno Unito (con sistemi elettorali, si noti, quasi opposti) la formazione del governo si è avuta dopo qualche settimana o addirittura dopo qualche mese, poiché occorreva tempo per stipulare patti di coalizione. Ma poi quei governi hanno retto per tutta la legislatura. Ed è questo che conta in democrazia: perché un governo di legislatura rende possibile far valere il principio di responsabilità politica davanti ad elettori in grado di valutare come governo e maggioranza parlamentare hanno esercitato il loro potere. Tuttavia non c’è legge elettorale che assicuri da sola un risultato simile. In una forma di governo parlamentare, un cambiamento di governo in corso di legislatura è sempre possibile: anche nel Regno Unito, come dimostrano i casi Thatcher e Blair. È vero che c’è un abisso fra cambiamenti di governo pilotati dal partito di maggioranza e a essi interni, e quelli resi necessari da coalizioni obbligate, poste sotto il ricatto dei partiti minori. Ma chi può dire che, in presenza di minoranze plurime, la legge appena approvata consentirà solo cambiamenti del primo tipo?
“La nuova legge consente di attribuire la maggioranza dei seggi a un partito che non abbia ottenuto la maggioranza dei voti, violando il principio democratico”.
I sistemi maggioritari a turno unico (plurality) consentono proprio di attribuire la maggioranza dei seggi a un partito che non abbia ottenuto la maggioranza dei voti, senza che la conseguente distorsione di rappresentatività del parlamento sia considerata una violazione della democrazia nei Paesi dove tale sistema è radicato. Dire che il solo sistema elettorale democratico, e quindi conforme a Costituzione, è il proporzionale, contrasta inoltre con quanto ha più volte ribadito la Corte costituzionale (da ultimo nella sent.n. 1 del 2014) a proposito dell’ampio spazio discrezionale di cui gode il parlamento nella scelta del sistema elettorale.
Il discorso, però, non finisce qui. La nuova legge non si basa sul sistema maggioritario, ma su un proporzionale corretto dall’attribuzione di un premio in seggi alla lista che abbia ottenuto la maggioranza dei voti (40% al primo turno, o diversamente un numero di voti superiore a quello dell’altra lista ammessa al secondo turno). E mentre, col sistema maggioritario, il risultato totale in seggi di ciascuna lista deriva direttamente e automaticamente dalla somma dei seggi da essi ottenuti in ciascun collegio, e, quindi, dalla competizione democratica che vi si svolge per ottenere il sostegno degli elettori, in un sistema proporzionale col premio la maggioranza dei seggi è assicurata “dall’alto”, cioè ex lege, con una forzatura rispetto a ogni altro modo di tradurre i voti in seggi destinata a creare frequenti contestazioni del sistema stesso. Non è che il premio sia contrario alla democrazia. È piuttosto la sua intrinseca rigidità a renderlo fragile, e tanto più fragile quanto più il sistema politico e gli assetti interni dei partiti sono destrutturati.
Eppure il dibattito parlamentare si è svolto costantemente sul presupposto che il nuovo sistema elettorale dovesse continuare a prevedere il premio introdotto dalla legge del 2005, anche se la riforma ha introdotto due modifiche molto importanti: la soglia minima di accesso al premio, che era richiesta dalla sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, e la previsione del doppio turno nell’ipotesi di mancato raggiungimento di tale soglia. A questo proposito, si è diffusa un’altra affermazione che è facile smentire.
“Il doppio turno con ballottaggio porterà a personalizzare la competizione politica, estromettendo i partiti”.
La legge prevede che, se nessuna lista raggiunge il 40% dei voti validi, il premio di maggioranza è disputato in un secondo turno fra le due liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti validi.
Il sistema del ballottaggio è di solito previsto per l’elezione di cariche monocratiche, si tratti del presidente della Repubblica in Francia o dei sindaci in Italia, mentre la legge elettorale lo prevede per l’assegnazione del premio di maggioranza alla lista che abbia conseguito il maggior numero di voti. Ma ciò non basta a fare del secondo turno una competizione personale. Quando vi sono partiti fortemente strutturati, radicati sul territorio, e che presentino un preciso programma di legislatura, la competizione sarà fra liste di partito non meno che fra i loro leader. Quando invece i partiti sono già ridotti a incerti contenitori di gruppi e correnti, privi di una visione politica condivisa, e possono quindi contare solo sulla presa del loro leader presso l’opinione pubblica, la legge elettorale non farà che registrarlo. Anche quando il sistema elettorale è un proporzionale puro, se i partiti sono destrutturati non c’è nulla da fare: la competizione politica avverrà fra i quattro o cinque leader di turno e si giocherà sul piano mediatico, salvo il concorso di potentati locali.
“La legge continuerà a produrre un parlamento di nominati, con danno irreparabile per la democrazia”.
La legge prevede che i capilista siano designati dai partiti (“liste bloccate”), e che tutti gli altri candidati siano eletti col sistema delle preferenze. Con la suddivisione del territorio nazionale in un centinaio di collegi, altrettanti candidati della lista che ottiene il premio saranno automaticamente designati dai partiti, mentre più del doppio saranno eletti col sistema delle preferenze. Quanto alle liste di minoranza, tutto dipenderà dal loro numero. Più ve ne saranno, minore sarà il numero di candidati eletti con le preferenze e viceversa.
Chi prosegue la polemica del “Parlamento dei nominati” ignora che in Germania metà dei parlamentari sono eletti su liste bloccate e la restante metà in collegi uninominali, che l’elezione avviene esclusivamente su liste presentate dai partiti politici, e che la designazione dei candidati alle elezioni è effettuata dagli iscritti ai partiti a voto segreto. L’esempio tedesco basta a dimostrare che non è dalla lista bloccata in quanto tale che deriva la designazione dei candidati da parte dei vertici dei partiti: ciò che conta è che tale scelta sia frutto di un ampio concorso di volontà nell’ambito dei partiti, e che gli elettori siano a loro volta messi in grado di esercitare una loro scelta. In questo il nuovo sistema elettorale differisce peraltro dal precedente, poiché la maggior ristrettezza dei collegi diminuisce notevolmente il numero dei seggi che ciascun collegio può esprimere, il che, come aveva implicitamente ritenuto la Corte costituzionale in un passaggio della sentenza n. 1 del 2014, rende corrispondentemente più agevole all’elettore la conoscenza dei candidati del collegio. D’altra parte, chi ricordi il funzionamento del sistema elettorale in vigore fino al 1994 non può non giungere alla conclusione che con le preferenze bisogna andarci piano: sono state troppo spesso veicolo di corruzione, anziché di partecipazione degli elettori alla scelta dei candidati.
La verità è che ci siamo ridotti a dover scegliere fra liste bloccate e preferenze, con i diversi problemi che ciascuno dei due sistemi comporta, per il fatto che il parlamento ha discusso la riforma sul presupposto che il sistema proporzionale con premio fosse un tabu intoccabile.
“Se a una legge elettorale si aggiunge una riforma costituzionale che elimina il contrappeso del Senato, «l’uomo solo al comando» sostituisce la forma di governo parlamentare”.
Ho già indicato perché, a mio avviso, i rischi della legge elettorale non hanno a che vedere con una diminuzione di spazi democratici, ma con la scarsa funzionalità del sistema del premio in un contesto politico destrutturato come quello italiano. Invece, di fronte all’affermazione che la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie territoriali “elimina un contrappeso”, non si tratta di esprimere opinioni, ma di fare appello alla buona fede. Quando mai, in oltre sessanta anni, il Senato italiano è stato considerato “un contrappeso”? Nessuno ha mai potuto sostenerlo, per la semplice ragione che una Camera eletta a scrutinio universale come l’altra, e chiamata a svolgere funzioni identiche all’altra, non può essere un suo contrappeso. L’obbligo del governo di godere della fiducia in due Camere anziché in una sola e l’esercizio collettivo generalizzato delle due Camere della funzione legislativa non possono assicurare alcuna garanzia contro lo strapotere di una maggioranza. Casomai richiedono un passaggio supplementare per raggiungere la stessa maggioranza, che fino a quando le due Camere siano ambedue legittimate dall’elezione popolare tale deve essere se non si vuole precipitare nel caos le istituzioni politiche. Le critiche a questa duplicazione, considerata da tutti il limite maggiore del disegno dell’organizzazione costituzionale fissato dai costituenti, riempiono da decenni le pagine di manuali e saggi di diritto costituzionale.
In una democrazia costituzionale i “contrappesi” al circuito maggioritario sono altri: il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, le magistrature. Lo sarebbe perfino un Senato rappresentativo delle autonomie territoriali, se la maggioranza non coincidesse con quella della Camera. È quanto è avvenuto a più riprese in Germania, ogni volta che il Bundesrat ha espresso una maggioranza opposta a quella del Bundestag.
Perché, possiamo chiederci a questo punto, le affermazioni più ricorrenti che ho passato in rassegna, subito esaltate dai media, non hanno a che vedere col merito delle questioni? Non si tratta di esagerazioni di dati di fatto agitate a fini di propaganda, che si possono mettere sul conto di qualsiasi dibattito politico infuocato. Si tratta di finzioni, che non corrispondono a un’analisi elementare degli effetti dei singoli sistemi elettorali. Il fatto è che il calcolo dei profitti e delle perdite che ciascuno potrà ricavare dalla legge elettorale (e dalla stessa riforma costituzionale) non supera i due-tre anni. Il resto non interessa, compresa la domanda se la nuova legge aiuterà gli stessi protagonisti politici a uscire dalla palude, o li trascinerà più a fondo.
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