Periodicamente gli scandali della corruzione nelle opere pubbliche, favoriti da quel dedalo oscuro di rapporti tra imprenditori, politici e amministratori locali, squassano la vita pubblica in Italia. Anche i casi più recenti (Expo, Mose, Mafia capitale, quello sul sistema degli appalti che ha travolto il ministro Lupi, costretto ad abbandonare il dicastero dei lavori pubblici pur non essendo penalmente coinvolto nell’indagine,e, infine, quello recentissimo di Ischia) sembrano confermare quanto sostengono le agenzie internazionali che effettuano indagini sulla percezione della corruzione.
Sebbene tali indagini facciano riferimento alla corruzione percepita, e, dunque, corrono il rischio tipico delle profezie che si auto-avverano, esse hanno comunque un potente impatto sulla reputazione di un paese. Com’è noto, infatti, se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze. Una situazione, quella della corruzione, che è dunque fra le cause decisive del declino economico e d’immagine del nostro Paese.
Le soluzioni che vengono proposte evidenziano due possibili rimedi: più mercato, e quindi più concorrenza tra imprese; maggiori controlli. C’è da chiedersi se l’analisi sia corretta e se le proposte siano utili ed efficaci. Iniziamo dall’esigenza di una maggiore concorrenza. Non v’è dubbio che la competizione fra imprese determina, secondo le leggi di mercato, una maggiore e migliore selezione delle imprese cui affidare appalti pubblici. Tuttavia non va dimenticato che esistono meccanismi di elusione della concorrenza, essenzialmente attraverso collusioni tra imprese. Inoltre in Italia è molto attiva e consentita la pratica del massimo ribasso con cui ci si possono aggiudicare lavori anche con offerte inferiori del 40% o più rispetto alla base d’asta. Queste pratiche comportano, nella quasi totalità dei casi, richieste di revisione dei prezzi da parte delle imprese che si sono aggiudicate l’appalto, nonché ritardi nell’esecuzione delle opere, dovuti alla ri-contrattazione dei prezzi. In tal modo si riportano i costi dell’opera alla base d’asta iniziale, o addirittura la superano in maniera esorbitante. E inoltre i tempi di esecuzione delle opere diventano insopportabilmente lenti.
Sono necessari maggiori controlli in casi come questi? Penso di no. Delle due l’una: o ha sbagliato il gruppo di funzionari pubblici (e i loro consulenti) a fissare una base d’asta troppo elevata, oppure bisogna diffidare delle offerte eccessivamente al ribasso e stabilire delle norme contrattuali che regolamentino rigorosamente, e in maniera restrittiva, le possibilità di revisioni dei prezzi. In entrambi i casi, l’amministrazione dovrebbe sapere, sulla base delle esperienze pregresse, che meccanismi di corruzione sono operanti e che vi sarà una lievitazione dei costi. E dunque potrebbe agire per prevenire fatti del genere, oppure rivalersi nei confronti di chi ha sbagliato o si è lasciato corrompere. E, sulla base delle esperienze precedenti, basterebbe un’offerta troppo bassa per attivare meccanismi preventivi di repressione della corruzione. Questo è uno dei casi riscontrati nell’indagine sull’Expo.
Diverso è il caso del Mose, perché mentre per l’Expo vi era una scadenza di consegna, resa obbligatoria dalla data certa in cui si dovrà tenere l’evento, nel caso del Mose la progettazione e la scadenza del termine è stata rinviata più volte nel tempo. Dall’inizio della progettazione a oggi sono passati oltre trent’anni, e i lavori non sono ancora compiuti. La lievitazione dei costi è enorme, e il tempo impiegato è di oltre 10 volte quello medio delle più grandi opere di ingegneria nel mondo negli ultimi trent’anni. Allora ci si chiede: quali altri poteri occorrerebbe conferire per poter reprimere i meccanismi corruttivi nascosti dietro questi eventi? Era così difficile sospettare che il prolungarsi nel tempo di questi affidamenti comportasse non soltanto aumento dei costi ma addirittura, come ipotizzano gli inquirenti, che vi fossero uomini politici, amministratori, intermediari, che erano a busta paga con scadenze periodiche, tali da configurare una sorta di vera e propria retribuzione stabile nel tempo?
Il problema dei controlli è certamente serio, ma non è un problema di quantità, bensì di qualità ed efficacia. Appare del tutto illusorio ritenere che numerosi controlli inefficaci possano essere resi efficaci semplicemente aggiungendo altri controlli. In realtà ciò comporterebbe un aggravarsi dell’incapacità di contrastare la corruzione. È il numero eccessivo di controlli inefficaci la vera condizione per la corruzione: troppe procedure burocratiche che provocano ritardi, ostacoli nelle decisioni, complicazioni procedurali, determinano la formazione di ceti specializzati d’intermediari (politici, amministratori pubblici, faccendieri), che si collocano sugli snodi cruciali dei rapporti tra imprese e amministrazione pubblica, alterando il meccanismo di mercato. Nascono così nuove corsie preferenziali per le imprese disposte a pagare che fanno dilagare ulteriormente la corruzione anziché arginarla. Non si tratta dunque di aggiungere altri controlli ma, semmai, di ridurli, rendendoli semplicemente più efficaci. In altri termini, dietro la corruzione vi sono molti meccanismi ma certamente, senza dimenticare quelli connessi alla morale pubblica e al rispetto delle regole da parte in primo luogo di politici e amministratori, e quelli connessi ai codici di comportamento di cui si dovrebbero dotare imprese e imprenditori, vi è quella diffusa mancanza di efficienza che caratterizza l’amministrazione pubblica italiana insieme alla bulimia legislativa.
Forse aveva ragione Publio Cornelio Tacito, uno che se ne intendeva, quando affermava: “Corruptissima re publica plurimae leges” (Annali, III, 27).
Se lo snellimento delle procedure, la maggiore efficienza e rapidità nelle concessioni, l’efficacia e la prontezza dei controlli (preventivi e in corso d’opera) sono alcuni dei requisiti che possono consentire una riduzione della corruzione, v’è tuttavia un altro punto da segnalare, che è connesso alla permanenza nell’incarico pubblico o nell’affidamento di funzioni di controllo e supervisione. Come dimostrano il caso del Mose, con la durata spropositata dei tempi dell’opera, e per altro verso quello del potente manager che governava il sistema degli appalti al ministero dei Lavori pubblici, la mancata turnazione negli uffici, specialmente quelli che comportano poteri di concessione, d’interdizione e di veto, fa sì che si costituiscano posizioni di potere, reti stabili di relazioni con concessioni di favori, che sono nemiche della concorrenza e costituiscono prerequisiti per la messa in atto di pratiche corruttive e di scambi di favori, prebende, regalie. Forse, in questo caso, vale per la prevenzione della corruzione l’osservazione di Leonardo da Vinci a proposito dell’acqua: “stabilità la corrompe” (Del moto e misura dell’acqua). Così come l’acqua stagnante diventa putrida, assume colori e odori sgradevoli, genera germi infettivi, allo stesso modo l’eccessiva permanenza di una persona in una carica corrode l’etica pubblica cui politici, funzionari, dirigenti dovrebbero attenersi e pone le basi per comportamenti corruttivi.
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