Nella giornata di Bologna contro le mafie di sabato 21 marzo l’attenzione è stata parimenti rivolta alla mafia e alla corruzione. In questa scelta, ha certamente contato il clima antipolitico che si respira e il fitto succedersi di scandali riguardanti le grandi opere pubbliche. Un significativo allargamento di prospettiva, che va accolto con favore. Evidentemente sul fronte dell’antimafia sociale qualcosa si muove nella direzione, auspicata anche da Paolo Prodi su queste pagine, di un approccio meno retorico e più concentrato sulle ragioni specifiche e di ordine generale che contribuiscono a rinsaldare il potere delle mafie. Ancora molto può essere fatto per un salto di qualità nella lettura del fenomeno mafioso, che andrebbe maggiormente contestualizzato e collegato ai fattori ambientali che sono alla base della sua genesi e riproduzione.
Nel corso degli ultimi quarant’anni le energie di studiosi, attivisti e inquirenti si sono principalmente rivolte al nucleo duro delle organizzazioni mafiose. Fino agli anni Settanta l’dea di «gruppo mafioso» era quantomeno imprecisa, offuscata dalla preponderanza del concetto di «comportamento mafioso», con cui si intendeva un modo di fare riconducibile ai tratti di una cultura «arretrata», alla gerarchia di valori della comunità, a equilibri normativi arcaici (rispetto, lealtà, onore, virilità). In altre parole, il concetto di mafia era diluito nella cultura locale, fino a perdere i suoi connotati distintivi e in ultima analisi – elemento foriero di implicazioni sul piano della repressione – la sua stessa essenza. La svolta «organizzativista» ha avuto grandi meriti: ha aperto la strada, a partire dall’inizio degli anni Ottanta con la formulazione del reato di associazione di stampo mafioso (art. 416 bis c.p., 1982), alla stagione dei maxiprocessi e del movimento antimafia, entrambi difficili da immaginare senza una chiara definizione del concetto di organizzazione mafiosa sia in sede conoscitiva che giudiziaria.
Lungo questa strada, tuttavia, abbiamo assistito a un’eccessiva reificazione del concetto di gruppo mafioso, fino a dargli un tratto di alterità e di autonomia rispetto al contesto. Il mondo mafioso è stato ridotto alla sua componente criminale violenta e i rapporti collusivi con rappresentanti delle istituzioni e del tessuto economico sono stati rubricati come casi di «infiltrazione», frequenti ma per loro natura eccezionali, in quanto trasversali a mondi reciprocamente alieni. Da una parte il «bene» rappresentato dallo Stato e dalla società civile, dall’altra il «male» incarnato dai clan mafiosi. Non è secondario che la retorica di questa contrapposizione abbia favorito la formazione di uno strato, trasversale ai diversi settori, di professionisti dell’antimafia, dai ruoli della ricerca all’attivismo associativo, spesso più orientato a salvaguardare le posizioni raggiunte che a perseguire gli obiettivi dichiarati.
Le cronache recenti – si pensi all’inchiesta su Mafia capitale – ci dicono che i circuiti di criminalità organizzata comprendono ruoli diversi, non del tutto identificabili con i tradizionali riferimenti mafiosi, collegati da rapporti di scambio tendenzialmente simmetrici, in cui la componente strettamente criminale violenta gioca spesso un ruolo subalterno. Non si tratta di una questione nominalistica, di un dilemma puramente accademico. Il modo in cui noi guardiamo a questi circuiti ha profonde ripercussioni sugli strumenti messi in campo per contrastarli. Nel primo caso, quello in cui si privilegi la dimensione antistatuale delle mafie, si opererà rafforzando la funzione di repressione sul piano militare, non scalfendo tuttavia la matrice dalla quale originano; nel secondo caso si rivolgeranno le energie e le risorse verso interventi che incidano selettivamente anche sui comportamenti della pubblica amministrazione, centrando così uno dei fuochi del problema.
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