Il Parlamento della XVII legislatura è stato eletto con una legge definita, un anno dopo le elezioni, per aspetti rilevanti contrari alla Costituzione. La Consulta, che certo non è un organo eversivo del parlamentarismo, ha sottolineato con chiarezza che la sua sentenza non interferisce con il funzionamento regolare (che va inteso a nostro avviso come “pieno”) dei supremi organi dello Stato. La sentenza è di monito e di stimolo affinché il Parlamento produca almeno una nuova legge elettorale, che oltre al rispetto della Costituzione garantisca anche la governabilità, della quale il Paese ha particolare bisogno.
Si è sostenuto - ad esempio Alessandro Pace su "La Repubblica" del 26 marzo scorso - che questo Parlamento non è nel pieno delle sue competenze e che, quindi, non potrebbe realizzare una riforma della Costituzione, come quella che comporti l’abolizione del Senato. Questa tesi sembra estrema per due ragioni.
Innanzitutto, la garanzia della governabilità dipende non solo dall’approvazione di una legge elettorale, ragionevolmente maggioritaria (“disproporzionale”), ma anche da una riforma della Costituzione. Quest’ultima, avendo previsto nel 1947 due corpi elettorali diversi [art. 48 e 58 della Costituzione], e conferendo a entrambe le Camere il potere di votare fiducia e sfiducia al governo, può dare origine, quale che sia la legge elettorale, a un Parlamento con maggioranze diverse nei suoi due rami, quindi a un sistema politico ingovernabile.
Sostenere che il Parlamento in vigore non possa intervenire per risolvere questo grave vizio di forma, in quanto la sua condizione sarebbe assimilabile a quella della prorogatio con conseguente deminutio potestatis, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale, significa assumere una posizione conservativa dello status quo piuttosto irragionevole, quasi a non voler considerare in assoluto discutibile qualsiasi ipotesi di riforma dell’assetto istituzionale.
L’esempio più riuscito di democrazia parlamentare del dopoguerra, la Repubblica federale tedesca, ha una seconda Camera (il Bundesrat), con competenze molto diverse da quelle del Bundestag (la Camera dei rappresentanti), l’unica direttamente eletta dai cittadini.
In secondo luogo, “abolizione del Senato” è un’espressione giornalistica. Le competenze e le modalità di nomina o di elezione dei membri della futura seconda Camera potranno essere analizzati attentamente solo nelle prossime settimane e mesi. Prematura risulta, pertanto, in questa fase qualsiasi valutazione, che necessita la presa in considerazione di dettagli ancora da definire.
In ogni caso, sono possibili – per una maggiore stabilità di governo – interventi che incidano ad esempio sui requisiti dell’elettorato attivo, rendendoli uniformi sia per la Camera sia per il Senato. Auspicabile risulta, senz’altro, un intervento di diminuzione del numero dei parlamentari, ma più come atto simbolico, per arginare la disaffezione della società nei confronti della politica, che decisivo nel contenimento della spesa pubblica.
Ciò su cui però val la pena, fin d’ora, porre l’attenzione sono alcuni scenari che si potrebbero delineare. Il bicameralismo della Costituzione italiana svolge una funzione essenziale nel processo di revisione costituzionale (art. 138). Se è ragionevole, nei modelli di altre grandi democrazie europee, sottrarre al Senato il voto di fiducia e il veto assoluto sulla legislazione, resta, invece, fondamentale garantire la “rigidità” della Costituzione repubblicana, attraverso quella “procedura”, che fa della “legge fondamentale” un insieme di norme “superiori” alle leggi ordinarie. La rigidità/superiorità si assume, infatti, garantita dal meccanismo “aggravato” (reso più complesso della semplice regola di maggioranza) di modifica della Costituzione, che la sottrae al potere delle mutevoli maggioranze elette. E’ necessario, quindi, che si mantenga un ruolo al futuro Senato nel meccanismo di revisione costituzionale (come accade in Francia e in Germania). Altrimenti si corre il rischio di rinnegare il senso stesso attribuito dai costituenti alla doppia deliberazione da parte di ciascuna delle Camere (elette), come forma essenziale di garanzia per una più ponderata valutazione delle modifiche costituzionali.
Pertanto, qualsiasi intervento di revisione, che incida sul Senato, trasformandolo ad esempio in una camera delle autonomie con funzioni consultive, deve essere valutato con la necessaria prudenza per gli effetti a catena che tale intervento potrebbe comportare sull’assetto costituzionale nel suo complesso.
Sostenere, però, che questo Parlamento non possa far altro che cambiare la legge elettorale e poi sciogliersi, significa, per chi scrive, fraintendere il monito della Corte e quello del presidente della Repubblica, che hanno chiesto al Parlamento (e dunque ai partiti politici che lo compongono) di fare lo sforzo necessario per la modifica di un sistema istituzionale che dopo 66 anni di degno servizio alla nazione richiede inevitabilmente qualche intervento di manutenzione. Prima che sia troppo tardi.
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